Mostra precedente: Marilyn nell'Arte
inizio 01-06-2023 fine 30-06-2023
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Grazie all’opera di Andy Warhol, Marilyn Diptych (creata subito dopo la morte dell’attrice nel 1962), la figura di Marilyn Monroe si è unita indissolubilmente con la Pop Art americana, nata con la mostra The popular image tenutasi nel 1963 alla Galleria d’Arte Moderna di Washington.
Così inizia il lungo elenco degli artisti (per la verità già nel 1954 il grande Willem de Kooning le aveva dedicato un surreale scomposto ritratto) che nel tempo hanno dedicato le loro opere per celebrare uno dei miti più famosi del XX secolo. Negli anni a venire poi la figura di Marilyn diventa per gli artisti un modo per celebrare un’importante icona del secolo scorso, ma anche uno strumento per affermare la propria cifra interpretativa (come per Schifano è stato l’appropriarsi di marchi pubblicitari come Esso o CocaCola).
Alcuni artisti hanno addirittura scritto un libro dedicato alla grande diva, come nel caso appunto di Omar Ronda (Marilyn Monroe. Una vita bruciata) che ha riservato all’immagine dell’attrice una gran numero di opere nella serie dei Frozen. Ronda utilizza una serie di immagini diverse di Marilyn, che conservano le caratteristiche fondamentali del personaggio legate alla bellezza e alla seduzione, congelandole sotto le sue resine sintetiche trasparenti, una sorta di ibernazione nella plastica: immagini cristallizzate da conservare per sempre.
Massimo Sansavini, utilizzando legni laccati con tinte lucidissime e vivaci, trasporta l’icona femminile da tutti ammirata in un mondo onirico e fantastico: l’immagine della Marilyn è inserita tra improbabili oggetti volanti proiettata in un «altra» dimensione spazio/temporale.
Vittorio Valente, che ormai da diversi decenni utilizza una sola materia, il silicone, per la sua complessa ricerca artistica, costruisce una particolare immagine di Marilyn utilizzando decine di «punte molli» (come lui stesso definisce le piccole colate di silicone), per conferire all’immagine un’inconsueta sorprendente pelle.
Il «pennello» utilizzato da Lady Be per realizzare le sue opere, che si possono inserire in un’area pop, sono micro-oggetti o frammenti di oggetti popolari. Centinaia di frammenti di plastica che, con le proprie caratteristiche cromatiche e con la memoria delle proprie storie diventano, attraverso un processo di riciclaggio, protagonisti di numerosi ritratti, come quello di Marilyn.
Se per Lady Be si può parlare di accumulazioni, per Roberto Comelli è invece la scomposizione visiva la tecnica adottata. L’immagine della Marilyn, precedentemente realizzata, attraverso un processo fotografico di frammentazione viene parzialmente stampata su tre pannelli di plexiglass sovrapposti poi su diversi livelli, ottenendo così l’immagine completa solo in una vista frontale.
Anche per le opere di Giovanna D’Alessandro (realizzate tramite una riquadratura in rilevato), si può parlare di scomposizione della figura, anche se la ricomposizione avviene sullo stesso piano. L’immagine della Marilyn, che usufruisce così di una artificiale profondità, attraverso la rottura dell’immagine (come in uno specchio frantumato) esprime la fragilità della donna, vista sempre solo come diva, come mito.
Antonio De Luca, invece, utilizzando gli strumenti della tradizionale «pittura» dipinge da sempre (con colori acrilici e ad olio su carta da spolvero intelata e con tratto deciso e accattivante) figure femminili che si muovono in uno spazio indefinito, in una dimensione quasi onirica. Anche la sua Marilyn, persa la notorietà mediatica, tra colature e velature, diventa una straordinaria, pura immagine di sogno.
Tra i personaggi famosi di Gianni Cella, spesso fantastici e fuori dalla realtà, tra il tragico e il grottesco, ma anche con sfumature ironiche, non poteva mancare una Marilyn. Attraverso la vetroresina smaltata, una sorta di lucente «dellarobbiano» medaglione, Cella ci restituisce un’immagine spensierata e allegra di un intramontabile mito.
Nonostante la diversità dei materiali e le diverse tecniche utilizzate dai vari artisti, l’immagine di Marilyn rimane comunque sempre riconoscibile nel confermare un valore simbolico evocativo.
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Mostra precedente: Francesco Tabusso
inizio 25-03-2023 fine 22-04-2023
Cresciuto artisticamente all’ombra della Mole Antonelliana e nello studio di Felice Casorati, Francesco Tabusso, classe 1930, raggiunge presto la notorietà (è del 1954 la presenza alla Biennale di Venezia e poi a quelle successive del 1956 e del 1958) con una pittura caratterizzata dall’immediatezza e dalla semplicità. Alla didattica (insegna anche al Liceo dell’Accademia Albertina) affianca un’intensa attività espositiva, con opere che hanno il sapore di una trasfigurazione del reale dal tono quasi magico, se non fiabesco. Un pittore, Tabusso, che ha sempre esplorato strade solitarie, al di là delle mode e dei movimenti, sospinto da una vocazione al racconto, alla visualizzazione di paesaggi e personaggi spesso appartenenti ad un mondo popolare e/o contadino. Una rappresentazione sempre espressa nel solco di una figurazione quasi fanciullesca, che comunque non deve essere considerata come superficiale o priva di contenuti.
Se oltre la siepe del Monte Tabor, di leopardiana memoria, non ci si immagina solo un paesaggio agreste, ma piuttosto quell’ostacolo ci consente la fuga della mente verso spazi infiniti che procurano un profondo benessere, oltre ad un senso di pauroso sgomento (naufragare nell’inafferrabile conoscenza del futuro), cosa si nasconde dietro le rappresentazioni delle tele di Tabusso?
Dietro quella campagna proposta nell’alternarsi delle stagioni, oltre quelle figure di umani e di animali colti nella quotidianità, si annidano sensazioni di malinconia, di rassegnazione ad un ineluttabile destino, scandite da pitture spesso asciutte, avare di variazioni cromatiche: «…i quadri di Francesco Tabusso immediatamente mi provocano una forte emozione poetica e un indefinibile sentimento simile alla malinconia, a un rimpianto per qualcosa che abbiamo perduto» (Mario Rigoni Stern, 1990). E anche quando si accendono in un accatastarsi quasi incontrollato, i colori nascondono una resa incondizionata al susseguirsi degli eventi.
Un racconto, il suo, fatto di sensazioni, di emozioni, espresso con un linguaggio personale e riconoscibile, ma che anche quando ci descrive un mondo composto da oggetti veritieri, anche quando ci presenta figure femminili ritratte da reali modelle, non possiamo non sospettare, non possiamo esimerci dal dubitare, insomma siamo costretti a riflettere su immagini che comunque hanno un qualcosa di irreale. Le composizioni, anche quelle che a prima vista sembrano le più banali, generano comunque un’inquietudine difficilmente nascondibile: le prospettive alterate, le figure inserite in improbabili paesaggi, le scene della quotidianità agreste non si lasciano leggere come unicamente descrittive (Tabusso non è certamente un pittore naif…) di un suo particolare universo, ma sono da decifrare come messaggi di uno stato d’animo inquieto, tormentato, forse sofferente, in perenne ricerca di una quiete mai trovata.
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Mostra precedente: Antonio De Luca
inizio 03-12-2022 fine 07-01-2023
Sono sicuramente le sue origini pompeiane e i ricordi di quelle antiche civiltà che hanno determinato la scelta di questi temi carichi di storia, di mitologia, come in «Medusa» o in «Lotta» oppure in «Peso».
In tutta la serie «Reperti» De Luca ripropone delle immagini classiche che mantengono l’emozione del ritrovato affresco dell’epoca romana, dove troviamo tracce di colore sbiadite quasi decomposte, dove i particolari del disegno hanno il fascino dell’opera incompiuta: i non finiti della storia dell’arte molto cari all’Artista.
Mantenendo quindi la sua inconfondibile tecnica, da sempre costituita nell’eseguire i lavori su carta da spolvero poi intelata (con colori ad olio, sfruttandone aloni e colature, per rappresentare figure con tratti veloci, sintetici, che danno la sensazione di uno spazio ancora da definire o addirittura in divenire, come viene sottolineato anche dalle «espansioni» in ceramica, come vengono definite dall’Artista, posizionate in modo non casuale ai bordi dell’opera stessa), realizza lavori che richiamano temi del passato classico.
Si è trattato così di eseguire delle vere e proprie «sovrapposizioni» nel senso che il gesto artistico contemporaneo si sovrappone alla memoria di figure del passato e, come spesso accade quando due elementi si sovrappongono, generano qualcosa di nuovo (come ad esempio nel caso della stampa policroma, dove si ottengono colori attraverso successive impressioni: il verde da quella del giallo e dell’azzurro) anche in questo caso l’esito è sorprendentemente unico, originale, singolare.
La trasformazione di una memoria tramandata in una memoria soggettiva, la concretezza fisica (accentuata dalla presenza dagli elementi in ceramica) in un mondo sempre più digitale e la percezione personalizzata del respiro del tempo (per citare la PFM), caratterizzano questa nuova proposta compositiva.
Un percorso dunque, quello di De Luca, ricco di ricerca, di costante evoluzione, ma sempre ancorato alla sua inconfondibile cifra che gli ha finora consentito di raggiungere successi ed affermazioni anche in campo espositivo, come ad esempio la presenza nell’importante rassegna «Artsite Residenze Reali» tenutasi nel 2019 alla Palazzina di Caccia di Stupinigi.
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Mostra precedente: Danilo Marchi
inizio 11-12-2021 fine 15-12-2021
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Dalla prima installazione (Uomo artificiale androgeno, presentato nel 1999) alla più recente (Electric Hexagons, composizione sospesa esposta al MACIST nel 2021) Marchi realizza con apprezzabile coerenza le sue opere, assemblando e manipolando bottiglie di plastica trasparente (PET) riciclate (eliminate dall’industria per minimi difetti di fabbrica).
Sculture antropomorfe o riproduzioni di animali (tutte concepite con dovizia di particolari e dettagli anatomici, da cui emerge la sua abilità manuale, oltre ad una non comune capacità di sintesi espressiva) abitano dunque l’universo immaginario di un artista che ha buon diritto di essere considerato contemporaneo. I temi affrontati da Marchi sono infatti molto attuali e protagonisti del nostro tempo: è così che l’uomo e la natura, l’organico e l’artificiale diventano i soggetti della ricerca di Marchi. Un’indagine che ci proietta in un mondo abitato da umanoidi pseudo-robotizzati e da animali traslucidi, a volte luminosi, ma che cela un messaggio preciso: prestare grande attenzione all’ambiente per scongiurare la distruzione delle risorse naturali del nostro pianeta, ma anche un avvertimento a non esagerare con le manipolazioni genetiche.
Un invito a non imitare, con sconsiderate ricerche, le sue fantascientifiche sculture antropomorfe, costruite in un laboratorio artistico attraverso l’assembramento di improbabili particolari anatomici e frutto di un’incontrollata creatività.
Diffidiamo dunque di questi umanoidi dalla strana pelle trasparente, dai colori sgargianti (verdi e blu), dalle ammiccanti posizioni.
Anche gli animali di Marchi, squali, levrieri, cavallette, pipistrelli, armadilli, nonostante l’aspetto tecnologico (dato dal materiale utilizzato), risultano comunque molto «naturali» e hanno la funzione di attirare l’attenzione dell’osservatore a volte per denunciarne la loro possibile estinzione, a volte semplicemente per evidenziarne la preziosa presenza, come nel caso delle api che all’interno dell’ecosistema naturale rivestono un ruolo fondamentale.
Il contrasto dunque tra naturale e artificiale, tra immaginazione e realtà, è proposto dall’Artista in modo sistematico e provocatorio, quasi fastidioso, così da non passare inosservato e raggiungere l’obiettivo prefissato: far riflettere sul presente immaginando il futuro.
Nel panorama dell’arte italiana, e non solo, Marchi può dunque saldamente ricoprire un posto significativo nel variegato mondo degli artisti che in sintonia con il proprio tempo hanno scelto, con successo, materiali sintetici per la realizzazione delle proprie opere.
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Mostra precedente: Vinicio Momoli
inizio 12-06-2021 fine 10-07-2021
Osservando alcune opere di Momoli si ha la sensazione di essere di fronte ad una materia proveniente da altri mondi: frammenti di materiale cosmico inspiegabilmente arrivato fino a noi grazie ad una forza sconosciuta e con la regia di un alieno, esperto manipolatore. In realtà si tratta del risultato di una ricerca artistica che può essere considerata come un’importante tappa che fa parte di quel viaggio (che dura ormai da 100 anni, iniziato nel 1917/20 da Naum Gabo), nell’ambito dell’utilizzo della materia plastica nel mondo dell’arte.
Dedicare attenzione alle opere di Vinicio Momoli (classe 1942) significa, dunque, effettuare un viaggio immaginario, seguendo un percorso inesplorato ricco di nuove frontiere da superare, per scoprire una materia finora quasi sconosciuta nel mondo dell’arte: la gomma.
Un elemento che, grazie alle sue proprietà, si caratterizza soprattutto per la sua duttilità e la sua straordinaria elasticità. Grazie a queste peculiarità, l’indagine di Momoli si trasforma nella ricerca di nuove dimensioni in uno spazio dilatato, senza limiti, attraverso nuove e fantastiche realizzazioni. È così che l’esploratore Momoli si addentra, a bordo della sua fantasia creativa, nel mondo della materia gommosa, intento ad analizzarne le caratteristiche e a sfruttarle con sorprendenti composizioni: dalle lisce applicazioni (che lasciano trasparire, nella loro disarmante semplicità, una certa vicinanza con soluzioni cromatiche essenziali, proprie di un minimalismo mai dimenticato dall’artista) ai grumosi materici agglomerati, attraverso ponderati contrasti di cromie. Presenze dai contorni indefiniti, superfici magmatiche consolidate, percorse da rigorosi inserti, a volte, invece, violentate da strane escrescenze.
Inutili i rimandi alle proposte degli esponenti di quell’Informale dell’immediato dopoguerra, caratterizzato dall’immediatezza del gesto, o dalla casualità dell’effetto compositivo. Nei lavori di Momoli nulla è casuale, tutto appare in qualche modo pensato, progettato, previsto, programmato.
Il rapporto con la materia diventa per Momoli simbiotico, l’artista sembra entrare a far parte della sostanza che lavora, che governa, che trasforma e che rigenera in composizioni che risultano sempre eleganti (da eligēre, ovvero scegliere). Ecco, Momoli sa scegliere, sa come combinare i colori (emblematici il corteggiarsi dei toni dei bianchi), sa quando fermarsi nella ricerca compositiva. Il prodotto finale risulta essere un concentrato di sensazioni, visive e tattili, facilmente fruibili dall’osservatore.
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Mostra precedente: Giorgio Griffa. Segni e colori sequenziali
inizio 07-12-2019 fine 11-01-2020
Certo, a parlarne oggi, a distanza di quasi cinquant'anni, bisogna ammettere che la decisione di Giorgio Griffa di perseguire la strada della pittura in un periodo (appunto tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio del decennio successivo) in cui quasi tutti gli artisti optavano per ricerche alternative - vedi Arte Povera - senza l’uso del pennello, è stata coraggiosa.
Una scelta rivelatasi vincente, vuoi per la perseveranza con cui è stata portata avanti, vuoi per le indubbie capacità pittoriche espresse, vuoi per gli originali contenuti resi con un linguaggio estremamente minimale.
Un linguaggio, il suo, ridotto ed essenziale, formato da segni e colori che si rincorrono, ripetuti in modo alternato ma sempre consapevolmente sequenziale, quasi come le note di uno sconosciuto spartito musicale o come ideogrammi di una scrittura tutta da decifrare.
Il segno inteso come ritmo, come registrazione dello scandire del tempo, come traccia del suo lavoro nel trascorrere dei decenni, come compagno dell’evolversi della sua ricerca: un segno inizialmente minimale, quasi ossessivo, poi maggiormente inquinato da campiture più ampie o codificato in un personalissimo ordine numerico spazio-temporale.
Il colore per esprimere le stesse armonie sia che venga steso sulla tela, con la quale dialoga come elemento essenziale della composizione dell’opera (la trama, le piegature, il colore stesso delle fibre) e non come semplice supporto, sia che venga tracciato sulla carta per poterne apprezzare le trasparenze e le irregolari sfumature.
Insieme, segno e colore, sono l’espressione di gesti ripetitivi concretizzati in linee verticali, orizzontali, oblique o in semplici arabeschi, a volte interrotti dall’inserimento di numeri, quasi per sottolineare una qualche correlazione con la matematica e con la scienza, in un disperato tentativo di legarsi alla concretezza di una ricerca estetica mai finita e definita come le sue tele, che vorrebbe mai incorniciate.
«I miei lavori», afferma infatti Griffa, «non sono mai finiti, i segni si arrestano prima, quasi a tentare di eludere quel momento della conclusione in cui il presente cessa di essere tale».
In questo rapporto tra il passato e il presente si riconosce uno degli aspetti costruttivi delle sue opere e forse al di là della ricercata estetica, è l’interrogativo (senza risposta) che affascina lo spettatore e contemporaneamente lo terrorizza: il significato mai risolto del terzo tempo ovvero il futuro.
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Mostra precedente: Lady Be. Volti Famosi
inizio 05-10-2019 fine 31-10-2019
Ritorna ad Acqui Terme, dopo i successi romani, Lady Be con una mostra di «Volti Famosi». Con la sorprendente tecnica, ormai da tutti definita «mosaico contemporaneo», la giovane artista di origine pavese, propone una nuova serie di opere dedicate come sempre a personaggi famosi nell’ambito della storia, dell’arte, della politica, della scienza, della moda, della musica (molto particolare la serie dei cantanti esposta al Concerto del 1° maggio a Roma), del cinema, dei fumetti, figure che fanno parte della memoria collettiva, miti e icone non solo contemporanee, che hanno comunque influito sulla società, sulla moda, sui gusti, sul modo di vivere di intere generazioni, rappresentati con molto rispetto ed attenta analisi delle personalità che rappresentano. Ciò che caratterizza e distingue questi ritratti è comunque la tecnica utilizzata: Lady Be si avvale del recupero di piccoli oggetti, o frammenti degli stessi, in materiale plastico. Il riciclo è alla base di questo suo mosaico, formato da tessere non di vetro o di marmo, ma di «pezzi» di plastica altrimenti destinati ai rifiuti, assemblati a costituire l’opera, senza per altro essere verniciati. Il riuso degli oggetti abbandonati o destinati allo smaltimento messo in atto da Lady Be non può ovviamente risultare la soluzione al problema, ma può contribuire a sensibilizzare l’attenzione sull’argomento, costituendo al contempo una tecnica artistica originale e decisamente identificativa. Si percepisce, infatti, un certo stupore quando si osservano le opere di Lady Be da distanze diverse. È proprio il punto di vista che offre una chiara interpretazione del particolare lavoro: se ci si avvicina molto all’opera si può chiaramente notare da che cosa essa è composta, ovvero da pezzi di giocattoli o di oggetti di uso quotidiano, alcuni addirittura ancora interi, tanto che si possono vedere ad esempio gli occhi delle piccole bambole o la sagoma di comuni animaletti, mentre se ci si allontana l’immagine si compone in quel ritratto che ha inteso rappresentare. Ecco dunque svelata la magica e sorprendente essenza di questi «mosaici contemporanei»: il «particolare» si trasforma in «intero» solo con una semplice operazione di allontanamento dall’immagine stessa.
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Mostra precedente: Dario Brevi
inizio 02-03-2019 fine 05-04-2019
Scrive Renato Barilli in occasione della mostra «I Nuovi Futuristi» tenutasi a Rovereto nel 2011 «…Dario Brevi è un mago, come avrebbe voluto Depero, che parte da strati di materia plastica procedendo a modellarli sapientemente in modo da farne saltar fuori delle icone, legate ai vari aspetti del tempo libero, sciatori, tuffatori, scalatori di vette aguzze, il tutto su maxi formati, che però sarebbero anche pronti a ridursi per divenire ciondoli ornamentali…».
Già, perché Dario Brevi, che si presenta ora alla GlobArt Gallery con la mostra «Il gioco delle parti», fa parte fin dall'inizio degli anni Ottanta (mostra a Madrid del 1989) di quel gruppo di artisti (tra i quali Marco Lodola, Gianni Cella, i Plumcake) che danno vita, con la complicità del critico bolognese Renato Barilli, al movimento del Nuovo Futurismo, superando così il concettualismo e il minimalismo che avevano dominato il decennio precedente e proponendo in alternativa opere consistenti, impattanti, molto visibili ed estremamente colorate.
Brevi, che nasce a Limbiate (MI) nel 1955 dove tuttora risiede, dopo la laurea in architettura, inizia il suo percorso espositivo presso la prestigiosa galleria Diagramma di Luciano Inga-Pin a Milano e sceglie per realizzare le sue opere un materiale industriale indeformabile utilizzato in edilizia e nell’arredamento, il medium-density fibreboard (MDF), che gli consente di realizzare lavori (sculture e bassorilievi) dalle forme più disparate e di ottenere verniciature lucide dai colori accesi.
Strutture, le sue, che si arrampicano come un’edera alla parete, che pigramente si riproducono e si distendono nello spazio per appropriarsene senza apparenti limiti.
In realtà le opere di Brevi sono assimilabili ad una rappresentazione teatrale dove ogni attore recita la sua parte, dove ogni protagonista gioca dunque le sue carte nella vicenda della vita. Le sue composizioni appaiono spesso come dei veri e propri fermo-immagine di un’azione che si sta svolgendo; assemblamenti che ci inducono non solo a riflettere su ciò che ci appare in quel momento, ma piuttosto ad immaginare quello che potrebbe accadere nell’attimo successivo. È così che le farfalle non possono certo essere immaginate statuariamente immobili, è così che i lupi colti in un attimo della corsa non si fermeranno lì, ma proseguiranno la loro corsa… ma dove andranno? Così come la «moto mito» (straordinaria opera del 2007) raggiungerà vittoriosa il traguardo o si perderà durante il viaggio? A volte, poi, il titolo dell’opera non lascia dubbi sul possibile movimento: non più inteso ma esplicitamente dichiarato come in Saltare gli ostacoli (lavoro del 2004).
Potremmo continuare a citarne molti altri di titoli di lavori che sottintendono o esplicitamente propongono una scena in movimento, per la quale dunque, poco o tanto, è stata immaginata una trama, pensato un copione da rispettare, affidata una parte da interpretare.
Se alla rappresentazione aggiungiamo poi che Brevi attraverso le sue opere ci lancia un messaggio, ci spinge a riflettere, ad andare oltre all’immagine proposta, invitandoci ad affidarci alle emozioni, ai sentimenti, che spesso prevalgono sulla ragione, è allora che «Il gioco delle parti» di pirandelliana memoria risulta ancora più evidente.
Anche nella concreta realizzazione delle opere sono spesso le parti che la compongono a rivestire un ruolo fondamentale nella comprensione dell’opera stessa: esse infatti sovente sono staccate le une dalle altre (o comunque minimamente e debolmente unite, forse solo per una comodità espositiva) ed è chiaramente intuibile che esse vivono di una propria autonoma importanza tanto da diventare, in alcuni casi, le vere protagoniste della scena.
Cosa sarebbe infatti la vespa senza le farfalle che la rincorrono? Nell’opera «Farvavespa» (peraltro scelta a rappresentare la mostra) infatti, l’immagine pop della mitica Vespa viene esaltata nella sua icona di allegria e di benessere dal disordinato volo di alcune farfalle che, partecipando al «gioco», sottolineano il movimento dello scooter accentuandone così quell’immagine simbolica di libertà acquisita nel tempo.
Le opere di Brevi, che possono essere considerate delle «pittosculture», rivelano l’uso sapiente ed estremamente professionale delle proporzioni e dei colori e denotano un saper fare non comune. La prima impressione è quella di essere di fronte a lavori che «giocano», guarda caso, con la sottrazione più che con l’addizione e che, in un clima a volte ludico, si configurano come opere estremamente aperte. Opere non solo realizzate con particolare maestria e perfezione, molto grate alla linea «curva» e «morbida», ma soprattutto lavori strettamente legati alle problematiche contemporanee come, ad esempio, il difficile rapporto tra naturale ed artificiale.
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Mostra precedente: arteplastica
inizio 26-01-2019 fine 20-02-2019
Dopo l’organizzazione alla GlobArt Gallery di due mostre (arteinplastica e artediplastica) con le quali è stato presentato un ampio ventaglio di opere realizzate con l’utilizzo di materiali plastici nelle diverse declinazioni tipologiche e formali, la nuova rassegna «artèplastica» arricchisce la visione globale di questa particolare produzione artistica, con l’inserimento di ulteriori testimonianze costituite sia da nuovi lavori che da ulteriori interpreti. La plastica, che ha invaso anche il campo dell’arte con proposte che sfruttano le peculiarità proprie della materia stessa come la leggerezza, la trasparenza, la duttilità (caratteristiche che permettono di realizzare con facilità opere dalle soluzioni cromatiche imprevedibili e dalle forme e dimensioni più disparate) si propone spesso anche come modello di riciclaggio. La mostra propone quindi l’attenzione, oltre ai Plumcake ed alla Cracking Art, su artisti che hanno fatto dell’utilizzo delle materie plastiche la loro cifra inconfondibile, tra i quali: Marco Lodola, che realizza sculture luminose sia urbane che d’ambiente, rappresentando immagini pop; Omar Ronda che confeziona, con la compressione a caldo di forme ed oggetti naturali i Genetic Fusion, mentre con i Frozen, congela sotto uno strato di coloratissime e materiche superfici di resine plastiche i volti delle grandi icone pop; Piero Gilardi, che con i suoi Tappeti Natura rappresenta frammenti di paesaggio naturale di campagna, di bosco, di mare, di torrente, riprodotti con forme perfette, sebbene con un materiale sintetico come il poliuretano; Gianni Cella, che realizza in vetroresina smaltata, con colori forti e pastosi, fantastiche figure ed ironici tridimensionali personaggi; Vittorio Valente, che utilizzando il silicone trasparente e colorato propone tridimensionali sculture rivestite di similpelle siliconica e tele dalle suggestive composizioni (Cellule e Griglie); Franco Costalonga che, attraverso le percezioni dei colori e del movimento virtuale, coinvolge lo spettatore con l’utilizzo di sfere in metacrilato specchiante; Lady Be, che con l’assemblaggio di particolari frammenti plastici riciclati realizza i suoi mosaici contemporanei con ritratti di personaggi famosi; Danilo Marchi, che dall’assemblaggio e dalla manipolazione di bottiglie in plastica trasparente (P.E.T.), scartate dall’industria, presenta sculture antropomorfe e realistici animali; Vinicio Momoli, che con le gomme industriali realizza essenziali composizioni materiche e geometriche. Una mostra completata dalle opere di Theo Gallino, Shinya Sakurai, Maurizio Cattelan, Gino Marotta all’insegna della contemporaneità, con protagonista una materia, la plastica, che ha portato profondi cambiamenti sia nella produzione seriale sia nella ricerca artistica, diventando così una vera e propria icona del Novecento.
Tutte le opere sono visibili nella colonna «Opere in vendita» in corrispondenza del singolo artista: Piero Gilardi, Franco Costalonga, Marco Lodola, Plumcake, Cracking Art, Omar Ronda, Vittorio Valente, Renzo Nucara, Alex Angi, Kicco, Carlo Rizzetti, William Sweetlove, Marco Veronese, Gianni Cella, Lady Be, Alessandro Di Cola, Theo Gallino, Danilo Marchi, Gino Marotta, Shinya Sakurai, Maurizio Cattelan, Vinicio Momoli.
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Mostra precedente: Shinya Sakurai - Colors & cultures
inizio 24-11-2018 fine 20-12-2018
Shinya Sakurai (Hiroshima, 1981), laureato in Belle Arti ad Osaka e in scenografia a Torino presso l’Accademia Albertina, apprezzato dai Maestri del gruppo Gutai, opera con il suo lavoro un perfetto sincretismo tra Oriente ed Occidente, tra contemporaneità e tradizione. Tralasciando le innumerevoli collettive, si possono ricordare le numerose presenze a fiere internazionali (Bologna ArteFiera, Arco Madrid, Art HK, Art Toronto, Art Fair Tokio, Art Osaka) e le significative personali come quelle al Museo Shibuya di Hiroshima (2004), all’Accademia delle Belle Arti di Macerata (2008), alla Artmark Gallery di Vienna (2010); a Palazzo Mistrot a Torino(2012), alla Base Gallery di Tokio (2013), alla Maeda Hiromi Art Gallery di Kyoto (2013).
Colpisce la facilità con cui Sakurai riesce a coniugare la tradizione pittorica giapponese e il linguaggio contemporaneo, che trova nella ripetizione seriale dell’icona uno dei temi più interessanti. Qui la cifra stilistica è la leggerezza new pop del cuore, immagine di per sé evocativa quand’anche fosse condotta solo a livello segnico. Sakurai invece, nel raccoglimento tutto orientale di un silenzio quieto e amoroso, la arricchisce di una gestualità antica (lo shibori, tecnica di colorazione del tessuto) e con la speranza del colore, uniti in un raffinato design tecnologico.
Così l’Artista prepara le sue tele intingendo nel colore il tessuto utilizzato per realizzare il kimono, il costume tradizionale giapponese, e fornendo spessore, con l’utilizzo di colla e una resina speciale, alla reiterazione del suo segno: cuori, bottoni, teschi, croci, lacrime e celle di colore. Pur appartenendo a tre generazioni successive a quella che ha vissuto nella carne la devastazione della guerra, anche Shinya, nato ad Hiroshima, non può dimenticare.
Una miscela esplosiva, quindi, quella di Sakurai che amalgamando due differenti culture con due diversi materiali cromatici fornisce all’Artista una cifra personalissima e riconoscibile, apprezzabile nella mostra Colors&Cultures, alla GlobArt Gallery, dove un’accurata selezione di opere offre al visitatore una panoramica completa del percorso artistico di un artista che nonostante la giovane età può annoverare una serie di presenze internazionalmente rilevanti come l’ultima e recente personale tenutasi presso la Galleria HEIS Contemporary di Tokyo.
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Mostra precedente: Analitica
inizio 20-10-2018 fine 15-11-2018
Identificata anche come «Pittura-Pittura, Nuova Pittura, Fundamental Painting o Pura Pittura», la Pittura Analitica nasce verso gli inizi degli Anni Settanta e, pur avendo coinvolto una nutrita schiera di artisti, non è mai stata rappresentata come un vero e proprio movimento nè gli artisti si sono mai sentiti partecipi di un gruppo definito.
Ciò che li accomunava era una comune volontà di reagire all’Arte Concettuale che, proponendo il definitivo abbandono di ogni finzione rappresentativa, considerava il mezzo della pittura come assolutamente superato.
L’Analitica si propose, quindi, di condurre un'analisi delle componenti materiali della pittura (tela, cornice, materia, colore e segno) e del rapporto materiale che intercorre fra l'opera come oggetto fisico e il suo autore.
La pittura diventò così un oggetto di indagine di sé stessa (pittura-pittura) e perse la referenzialità che la legava alla realtà (nella pittura figurativa), all'espressività (nella pittura astratta) e al significato sotteso (nell'arte concettuale).
Si può, dunque, considerare la Pittura Analitica come una tranquilla fase di riflessione, di ricerca interiore, un momento di quiete con modi espressivi rilassanti, quasi una fuga dalle incalzanti ed aggressive rappresentazioni dell’Informale, dalle agitate e vivaci proposte della PopArt e dai cerebrali coinvolgimenti senza limiti di una visione concettuale dell’arte contemporanea.
Oltre ai precursori Rodolfo Aricò e Mario Nigro hanno preso parte a questo modo di fare «pittura» una quarantina di artisti, ma sicuramente tra i più rappresentativi emergono: Enzo Cacciola, Vincenzo Cecchini, Paolo Cotani, Giorgio Griffa, Marco Gastini, Paolo Masi, Claudio Olivieri, Claudio Verna, Elio Marchegiani, Carmengloria Morales, Pino Pinelli, Riccardo Guarneri, Gianfranco Zappettini.
La rassegna presenta una selezione di opere di alcuni di essi: i «Cementi» di Cacciola, dove insieme al colore la materia e la sua lavorazione assumono un’importanza centrale; le carte di Cecchini dove i pigmenti, la graffite e l’acetato giocano con la definizione di uno spazio possibile; le tele senza telaio e le carte di Griffa sulle quali i segni colorati diventano la traccia di un’azione e l’effetto concreto di un pensiero; i «Cartoni» riciclati di Masi con cui l’Artista indaga, violentandola, una superficie sorprendentemente protagonista; le tele di Olivieri ridotte a schermo su cui i vari gradi di intensità luminosa dipendono dal gesto pittorico; le corpose materie pittoriche tridimensionali di Pinelli che, in formazioni di varie dimensioni, si muovono nello spazio; le tele di Guarneri dove segno e luce si rincorrono nel definire un impianto compositivo minimale quasi impercettibile.
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Mostra precedente: Lady Be - Ritratti contemporanei
inizio 26-05-2018 fine 30-06-2018
Sono ritratti perché sono immagini di persone rappresentate in base alle reali fattezze e sembianze, sono contemporanei perché più che mai realizzati secondo le caratteristiche dell’arte del tempo in cui sono eseguiti.
Sono, quelle di Lady Be, icone pop del cinema, della musica, dell’arte, della moda, sono protagonisti della storia, della scienza, donne e uomini presenti nell’immaginario collettivo che hanno lasciato traccia nella memoria: gente conosciuta, si potrebbe dire.
Personaggi non scelti a caso, figure dalle spiccate personalità, vuoi per il loro percorso di vita, vuoi per le loro gesta o azioni che spesso hanno condizionato, se non cambiato, il modo di vivere dell’intera umanità o più semplicemente l’hanno arricchita sotto l’aspetto culturale o l’hanno intrattenuta con straordinarie performance. Personaggi rappresentati con singolare abilità nei tratti essenziali: è così che lo sguardo magnetico di Salvador Dalí ci fissa sopra gli inconfondibili baffi, o la dolcezza infinita di Mahatma Gandhi ci osserva dietro gli inseparabili rotondi occhialini, è così che il fascino di Marilyn Monroe ci rapisce sia nella versione tradizionale che in quella più cromaticamente accesa della versione pop.
Un racconto quello proposto dall’Artista pavese che si articola tra il sacro e il profano, percorrendo la storia di oltre 2000 anni dall’egiziana Nefertiti alla Regina Elisabetta, passando, tra gli altri, per Carlo Magno, Napoleone e Mao Tse Tung.
Ma cosa distingue e caratterizza la sua opera? Certamente la tecnica e la contemporaneità.
Contemporaneità esaltata dall’uso del materiale dei nostri giorni, potremmo dire del nostro tempo: la plastica. Con l’assemblaggio di particolari elementi plastici, derivanti dalla frantumazione di oggetti di uso quotidiano o da piccoli giocattoli, l’Artista compone, crea, dà forma alle sue opere con l’intento di mettere anche in evidenza il problema del recupero delle materie plastiche e, perché no, con la realizzazione di opere d’arte. Centinaia di frammenti, ognuno con il proprio carico di ricordi e di memorie, raccolti e scelti in particolar modo per le caratteristiche cromatiche, si trasformano in ritratti quasi accademici.
Se volessimo ancora aggiungere un aggettivo al lavoro di Lady Be, credo si potrebbe definirlo «sorprendente». Nel senso proprio della sorpresa che genera nell’osservatore. Dopo aver apprezzato le capacità espressive dell’Artista nel proporre somiglianti ritratti, è quando ci si accosta all’opera che veramente si è colti dalla sorpresa. È necessario avvicinarsi veramente molto per accorgersi che quei tratti somatici così ben raffigurati, che quelle particolari espressioni del viso che quegli indagati sguardi sono stati ottenuti dall’assemblaggio di pezzi di plastica, non rielaborati e/o ritinteggiati, ma lasciati esattamente come erano in origine.
Allora ci si accorge che quelle sfumature del volto tinta carne sono state ottenute accostando pezzi di bambole, di «babaccini», di braccini o di piedi di bambolotti e che, guarda guarda, alcuni hanno ancora i loro occhietti, i loro nasi o che addirittura alcuni, che raffigurano ancora interamente piccoli animali o personaggi della fantasia, oggi compongono i capelli o i baffi del personaggio raffigurato.
È in questa azione di avvicinamento/allontanamento, in questo spazio tra l’osservatore e l’opera che si celebra la cifra inconfondibile di Lady Be.
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Mostra precedente: Vittorio Valente. Griglie bianche
inizio 14-04-2018 fine 12-05-2018
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Il concetto di griglia (inteso come uno schema costituito da un sistema di rette parallele e perpendicolari che si intersecano tra loro, in modo da dare luogo a una serie di caselle utilizzate per facilitare il posizionamento e l’allineamento di elementi o di segni grafici su di un piano), è da sempre presente nelle opere di Valente.
Fin dai primi lavori, infatti, la ripartizione dello spazio a quadretti segna un punto di partenza del suo percorso di ricerca, che se da un lato può essere stata influenzata dalle precedenti composizioni astratte e geometriche, dall’altra è altrettanto vero che, soprattutto alla luce degli sviluppi successivi, quel susseguirsi e rincorrersi di cromie integrate in rigide griglie racchiudono un elemento nuovo, individuabile nella ossessiva ripetitività del «segno».
La volontà di trasferire in un’opera pittorica quel concetto di ripetizione, di iterazione, di moltiplicazione di un elemento primario come la cellula in altre identiche (mitosi: processo di riproduzione cellulare), sta comunque, insieme all’utilizzo di una tecnica non formale, alla base di tutto il lavoro artistico di Valente.
In sostanza, quindi, le prime pitture di Valente non vanno intese come un’esercitazione cromatica tesa alla composizione estetica di un ipotetico freddo e geometrico informale, ma vanno essenzialmente lette come il tentativo di rappresentare un concetto fin dagli inizi fondamentale della sua ricerca: rappresentare l’infinitesimamente piccolo nella sua ripetitività.
La prima personale dal titolo Griglie si tiene al Centro d’Arte e Cultura Il Brandale a Savona, nel 1987, dove Valente presenta una serie di textures, realizzate alcune con l’utilizzo di cartoncini in diverse gradazioni di colore, allineati e sospesi su fili tesi ed ancorati in un telaio a costituire piani e spazi geometrici tridimensionali, altre con la composizione, sempre ad incroci modulari, di vetrini decorati da inserti in silicone.
La ripresa del tema avviene, poi, circa vent’anni dopo, quando la composizione geometrica di infinite gocce di silicone vanno a costituire un tessuto formato dall’iterazione di un singolo elemento. Il gioco cromatico delle singole punte è spesso costituito da colori primari contrapposti mentre in altre occasioni è determinato dall’armoniosa declinazione di tinte morbide ed omogenee, fino ad arrivare alle soluzioni monocromatiche, dove l’effetto visivo è determinato anche dalla differente forma materica e dalla dimensione dei singoli elementi.
Una particolare attenzione va riservata alle Griglie completamente bianche, poiché costituiscono un modo molto personale e singolare di rappresentare il concetto della superficie operata, quasi una ricerca con affinità alle tensostrutture, anche se concettualmente e materialmente differenti. In questi lavori Valente opera con le sue gocce siliconiche realizzando punte più alte o più basse, più grandi o più piccole, più distanti o più vicine. Gioca con tre elementi: il silicone, il bianco e la luce, dove l’effetto delle ombre portate, conferendo all’opera una particolare e diversa illuminazione, interagisce concretamente con l’osservatore.
Un territorio mentale quello di Valente ancora da esplorare, ricco di conferme e di novità, in ogni caso sorprendente per la freschezza delle proposte pur sempre rigorosamente legate alle proprie rizomatiche radici e coerenti con la decennale ricerca.
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Mostra precedente: Paolo Masi - Cartoni 1975/2014
inizio 03-03-2018 fine 03-04-2018
Già dagli anni Cinquanta Paolo Masi (Firenze, 1933) è protagonista, nella sua Città natale, nell’ambito di quell’attivismo artistico proprio del decennio postbellico. Al ritorno dalle esperienze di Zurigo, Parigi e Milano, nei primi anni di attività cede alle influenze di un Informale imperante realizzando opere in sintonia con l’aspetto più gestuale, ma che svelano già una particolare attenzione per la superficie nelle varie declinazioni cromatiche.
Con gli anni Sessanta gli sviluppi della sua attività affrontano tematiche costantemente legate ad una continua sperimentazione sul modo di operare la superficie della materia. In questi anni partecipa al gruppo di ricerca estetica Centro F/Uno, è fondatore dello spazio no profit di Zona e del collettivo Base. In seguito si avvicina alle esperienze analitico-riduttive, mentre la fase successiva coincide con il ritorno alla bidimensionalità attraverso il progetto Rilevamenti esterni - conferme interne, elaborazione che Paolo Masi sviluppa all'esterno con il lavoro a New York delle Polaroid di tombini, muri e pavimenti e all'interno dello studio con le Tessiture (tela grezza cucita) e i Cartoni.
Sono opere, queste dei cartoni da imballaggio, che sicuramente costituiscono uno dei più rappresentativi passaggi del percorso artistico di Masi, tanto che sono anche state riprese, se pur con sempre diverse tipologie, anche negli anni a seguire.
La mostra, allestita con una nutrita serie di Cartoni (1975/2014), rappresenta in modo esaustivo l’analisi fatta da Masi sulle possibili interpretazioni di una superficie apparentemente anonima, come quella appunto del cartone da imballo, e sulle declinazioni di interventi molto diversi tra di loro, ma sempre con risultati sorprendentemente complessi nonostante la semplicità delle azioni. L’intervento su questa superficie, in un certo senso morbida e disponibile, consente a Masi di operare nei modi più svariati sia per ottenere effetti cromatici e geometrici sia per creare differenti sensazioni tattili. È cosi che sopra la faccia (super-facies) del cartone, oltre al recupero dei particolari esistenti, vengono eseguite bucature, lacerature, graffiature, vengono stese coloriture ed applicate carte veline e adesivi trasparenti, con il risultato di ottenere una gruppo di opere che, pur mantenendo una propria unicità, consentono, grazie alla loro serialità ed alla regolarità dimensionale, anche una aggregazione in un continuo divenire compositivo.
Nelle opere più recenti Masi, recuperato l’uso del colore, del gesto pittorico, della manualità, sviluppa la ricerca indagando il rapporto tra forma-contenuto, mentre con la serie dei plexiglas trasparenti indaga una nuova definizione dello spazio attraverso sollecitazioni cinetico-cromatiche.
Tra le partecipazioni a mostre e rassegne si possono ricordare: la Biennale di Venezia del 1978 (dove presenta una significativa installazione), la XI Quadriennale di Roma del 1986, le mostre Kunstlerbücher di Francoforte e Erwitert Photographie Wiener Secession di Vienna (1980); la mostra Pittura Analitica. I percorsi italiani 1970-1980 al Museo della Permanente (Milano, 2007) e l’antologica nella Sala d’Arme di Palazzo Vecchio a Firenze (1985). Opere storiche di Masi si trovano nelle collezioni del Mart di Rovereto, della Galleria d'Arte Moderna di Palazzo Pitti di Firenze e della Galleria d'Arte Moderna di Torino.
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Mostra precedente: Sergio Romiti. Strutture dinamiche
inizio 27-01-2018 fine 24-02-2018
La rassegna vuole essere un dovuto omaggio ad un importante Artista troppo spesso dimenticato: Sergio Romiti. Ripercorrendo tutta la sua produzione artistica (oli, tempere, acrilici e disegni), la mostra mette in evidenza la coerente ricerca svolta nel corso dei decenni da uno dei protagonisti dell’Informale italiano.
Nato nel 1928 a Bologna, dopo una fase iniziale vicina ad un espressionismo con ascendenze picassiane e fauve, Romiti si lascia coinvolgere da quegli oggetti e da quelle cose poste in un ambiente familiare, (mensole con oggetti, tavoli di cucina, tavoli con pesci, macellerie, stirerie) destrutturate e riorganizzate in composizioni spaziali completamente slegate dalla poetica morandiana (anche se per certi versi ne ricordano ancora le declinazioni cromatiche), ma animate da un impercettibile dinamismo dei volumi. Già nel 1951 è presente alla Galleria Il Milione di Milano e alla Bussola di Torino, partecipa alla mostra Cinquante peintres italiens d’aujourd’hui alla Galleria La Boëtie di Parigi ed è invitato alla I Mostra Pittori d’oggi, Francia - Italia di Torino.
Nell’evoluzione del suo percorso creativo, Romiti abbandona sempre più l’oggetto per rifugiarsi in un’esaltazione dello spazio, dove la realtà degli oggetti diventa sempre più evanescente, spesso condizionata da improbabili movimenti. Intanto partecipa alla Biennale d’Arte di Venezia nel 1952, 1954, 1956, 1958, 1960.
Le composizioni degli anni Cinquanta, evidenziano in modo inequivocabile quell’immagine di movimento, di dinamismo, grazie anche alla pennellata «trascinata», propria di tutta la produzione artistica di Romiti. I colori stessi, sovrapposti e dilavati, tendono ad estendersi oltre i propri confini come in una rappresentazione fotografica dal tempo di esposizione dilatato.
Il primo grande riconoscimento espositivo arriva nel 1976 quando alla Galleria Comunale d’Arte Moderna di Bologna viene allestita una corposa antologica con la cura critica di Maurizio Calvesi; ne sarà organizzata anche una postuma nel 2001.
Emblematiche sono le opere degli anni Settanta, dove il colore ha lasciato posto al bianco della luce e al nero. Sono pitture in movimento che preannunciano, però, il punto di arrivo di una ricerca arrivata al grado zero del percorso, oltre il quale impossibile spingersi. Dopo anni di inattività, verso il 1984 Romiti riprende a dipingere (colori lucenti, a tempera) opere pervase da un concitato affanno: grazie al gesto quasi violento di pennellate orizzontali, verticali, rettilinee e ondulatorie esse esprimono la liberazione di un tormento interiore e suggeriscono un microcosmo di elementi in agitazione, pronti ad uscire dal foglio che li racchiude. Seguono alle tempere una serie di dipinti acrilici, dove ancora il colore è il protagonista indiscusso. Le tele propongono cromie intense con impalcature complesse e con una dinamicità compositiva, testimoni di una raggiunta consapevolezza della padronanza di un linguaggio espressivo radicato, ma allo stesso tempo ancora soffocato da dubbi e ripensamenti. Nonostante, infatti, l’apparente complicità decorativa, rimane sempre difficile la lettura dell’opera romitiana, così come inspiegabile la sua improvvisa e rapida interruzione avvenuta il 12 marzo del 2000 con un colpo di fucile.
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Mostra precedente: 2007-2017 Dieci anni di attivita
inizio 02-12-2017 fine 13-01-2018
Animata da Adolfo Francesco Carozzi, con il sostegno del figlio Eugenio, la GlobArt Gallery ha cercato negli anni di svolgere un’attività anche culturale, promuovendo e facendo conoscere, attraverso l’allestimento di numerose rassegne, gli esponenti storici dell’arte contemporanea e riservando una particolare attenzione anche alle nuove proposte.
Per ricordare i dieci anni di attività (la prima mostra, dedicata ad Eugenio Carmi, risale infatti al 2007), viene allestita un’esposizione delle opere di tutti gli artisti che, in questo decennio, hanno tenuto una personale nei locali della galleria, oltre ad una selezione dei protagonisti delle numerose collettive. Si possono quindi apprezzare le opere, molte di esse inedite, realizzate con diverse tecniche, dalle tele estroflesse di Simeti ai dipinti ad olio su tela di Vaglieri, Paulucci e Morlotti, dagli acrilici di Griffa ai puzzle di Nespolo, ai legni di Ceroli. Tra i cinquanta e più artisti spiccano inoltre nomi come Gilardi, Galliani, Veronesi, Carmi, Melotti, Costalonga, Music, Scanavino, Chia, Uncini, Brown, insieme ai giovani Di Cola, De Luca e Casati. Particolare attenzione viene inoltre riservata ai protagonisti delle due mostre che hanno avuto per protagonisti i lavori realizzati con le più disparate materie plastiche. Così che si possono vedere le sculture in vetroresina smaltata dei Plumcake e di Gianni Cella, le plastiche riciclate di tutti i componenti, sia storici che attuali, della Cracking Art (da Ronda a Nucara, da Valente a Alex Angi) fino ai plexiglass luminosi di Lodola, ai mosaici di Lady Be ed ai pluriball di Theo Gallino.
Una rassegna, dunque, che racchiude e presenta contemporaneamente uno spaccato ricco e vario della più recente produzione artistica, assemblata con competenza e professionalità mirata a fornire ai collezionisti una scelta ricercata e diversificata per soddisfare una passione definita da molti come un’«inguaribile sana malattia».
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Mostra precedente: Mario Surbone - Incisi anni '70
inizio 04-11-2017 fine 30-11-2017
Dopo la personale del 2014, torna ad esporre alla Globart Gallery il torinese Mario Surbone (classe 1932), con una selezione di opere tutte risalenti agli Anni Settanta: gli «Incisi».
Si tratta di una serie di lavori ottenuti con la modellazione della superficie di particolari cartoni, attraverso la realizzazione di ricercati tagli concepiti in un periodo molto importante del percorso dell’Artista quando, in perfetta sintonia con le tendenze minimaliste del tempo (si pensi alla pittura analitica), declina la sua personale ricerca in un susseguirsi di scomposizioni e composizioni pseudo-geometriche, con il solo utilizzo delle ombre «riportate» dai tagli e dai fogli leggermente sollevati in campi monocromi, spesso bianchi.
Dopo un primo periodo informale, in cui le figure, se pur con disordinata pennellata, tendono già a disporsi in composizioni ricercanti una struttura geometrica, Surbone alla fine degli anni Sessanta e per tutto il decennio successivo indaga, con una personalissima tecnica, il rapporto tra la luce e le ombre, tra i vuoti ed i pieni: a volte la superficie, se non fosse per le perfette linee geometriche, potrebbe essere considerata come il risultato di un sottostante movimento tellurico che ne scombina la statica planarità.
Senza dubbio, l’osservazione degli Incisi suggerisce un movimento in essere, spesso le fenditure, come i rialzi, invitano a riflettere sull’evoluzione delle figure, anche se apparentemente scontate; nulla, dunque, è definitivo nell’arte di Surbone, così come non lo è stato per le opere del periodo seguente, dove le figure ritagliate e distaccate dal muro continuano a generare un rincorrersi di dinamiche visioni.
Innumerevoli sono state le mostre, le rassegne e le pubblicazioni a lui dedicate nel corso degli anni (Quadriennale della Promotrice delle Belle Arti di Torino, Museo d’Arte Contemporanea di Villa Croce di Genova); ci piace qui ricordare solo le due ultime iniziative esclusivamente dedicate agli Incisi: l’esposizione, tenutasi nel 2016 presso lo spazio espositivo Fondazione Stelline a Milano, e il catalogo ragionato degli «Incisi 1968/1978», pubblicato da Allemandi con la presentazione di Elena Pontiggia, che nell’occasione sottolinea come Surbone appartenga «a quella famiglia di artisti che, muovendo autonomamente dalla lezione di Fontana e poi del gruppo Azimuth, hanno lavorato non sulla tela ma con la tela (nel suo caso: non sulla superficie, ma con la superficie)».
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Mostra precedente: Melotti. Carte disegnate
inizio 01-07-2017 fine 05-08-2017
Anche Melotti, grande protagonista dell’arte del secolo scorso (prima astrattista poi costruttore di straordinarie composizioni tridimensionali) non si è sottratto all’affascinante richiamo della carta che da sempre in modo molto democratico risulta essere uno strumento di comunicazione, di riflessione, di comprensione e sicuramente di creazione.
Indispensabile per i letterati e i musicisti, e poi per i fotografi, questo antichissimo supporto è stato anche un fedele alleato di pittori e scultori: impossibile infatti, ad esempio, non poter ricordare i capolavori dell’arte antica e moderna realizzati con la tecnica dell’acquarello o gli studi preparatori di fondamentali opere scultoree, fino ad arrivare alle più recenti realizzazioni dell’arte contemporanea (dalla pop-art al concettuale).
Apprezzato dal collezionismo internazionale per le sue fragili sculture dagli instabili equilibri e per le composizioni strutturali ispirate da lirici modelli matematici e da armonie musicali, Melotti conserva nelle opere su carta i temi fondamentali della sua ricerca, confermando quella liricità espressiva propria delle opere tridimensionali.
È così che il rincorrersi dei segni sul foglio, sia che siano di graffite, di pastelli o di tempere, ripropongono le stesse sensazioni ed emozioni generate dall’osservazione dei leggeri e delicati filamenti metallici o delle quasi trasparenti forme in ceramica.
La mostra, nel proporre una serie di opere su carta di diverse datazioni, vuole rendere omaggio ad un Artista che, nato nel 1901 a Rovereto, si laurea in ingegneria elettronica, si diploma in pianoforte e si iscrive all’Accademia di Brera, dove stringe una lunga amicizia con Fontana.
Complesso ed articolato da allora fino alla sua scomparsa (Milano,1986), il suo percorso artistico si caratterizza per una estrema coerenza. Dopo l’adesione al Movimento Abstraction-Création infatti, già nel 1935 espone a Milano alla Galleria del Milione, in una sua personale, sculture di ispirazione rigorosamente contrappuntistica, sintetizzando una sorta di «astrazione musicale». Mentre due anni dopo, in occasione della VI Triennale di Milano, crea per la Sala della Coerenza un’opera-chiave, la Costante Uomo. Dodici sculture scandiscono ritmicamente lo spazio in un progetto che armonizza colore, parola e piani, in una compiuta installazione ambientale. Nel dopoguerra si dedica alla ceramica e raggiunge, attraverso una tecnica raffinatissima, un’altissima qualità; intanto, un profondo legame professionale con Giò Ponti lo porta a collaborare in due grandi progetti: la Villa Planchart a Caracas (1956) e la Villa Nemazee a Teheran (1960).
In seguito Firenze, Roma, Venezia, Milano ma anche New York, Londra, Zurigo, Francoforte e Parigi e molte altre grandi città gli dedicano ampie mostre personali e collettive: nel 1986 la 42ª Biennale di Arti Visive di Venezia gli conferisce il Leone d’Oro alla memoria.
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Mostra precedente: Gianni Cella
inizio 27-05-2017 fine 16-06-2017
Dopo un periodo nel quale gli artisti distruggono definitivamente il concetto di unicità ed artigianalità dell’opera, mediante ad esempio il ready-made, la scultura contemporanea, in qualche sua espressione, si può dire che recupera quel concetto alla base del suo stesso significato: l’arte di dare forma ad un oggetto tridimensionale partendo o da un materiale grezzo, (come il legno e le pietre) o assemblando tra loro differenti materiali, (come il ferro e il vetro) o plasmando anche con un processo di addizionamento una materia duttile e morbida (come l’argilla o il gesso).
Se a questo si aggiunge poi la possibilità di utilizzare nuovi materiali dalle straordinarie caratteristiche tipo le resine, le gomme, in sostanza tutte le materie cosiddette «plastiche», che consentono forme altrimenti impensabili, allora i risultati proposti da alcuni protagonisti dell’arte contemporanea possono essere considerati e definiti come «sculture» nell’accezione più classica del termine.
Tra loro può essere sicuramente inserito Gianni Cella (classe 1953, avente all’attivo la partecipazione a mostre in città importanti come Milano, Zurigo, Amsterdam, Madrid, Venezia, Parigi, Chicago, Roma, Berna) che ormai da decenni utilizza la vetroresina smaltata per realizzare le sue opere tridimensionali. Già noto per essere uno dei fondatori del gruppo Plumcake nel 1983, dal quale si separa nel 2000, Cella ha infatti alle spalle una lunga ricerca che porta avanti attraverso un linguaggio fra il tragico e il grottesco, mettendo in evidenza l’aspetto più irriverente e crudo della realtà, lo stesso che l’industria del divertimento e del consumo di massa tendono ad oscurare. Ma le opere di Cella sono anche esperienze giocose, fatte di colori e forme accattivanti, un modo per unire ironia, riflessione e bellezza. Argutamente ironico, iconoclasta, Cella conduce un’indagine profonda sugli aspetti tragici e grotteschi della realtà camuffandoli con buffi, coloratissimi personaggi variopinti, al tempo stesso inquietanti e divertenti. Temi e cifre che ritroviamo anche nelle opere della mostra «I buoni e i cattivi» dove l’Artista, giocando sul dualismo del termine ed attirando l’attenzione (come ha fatto Edoardo Bennato nell’album del '74 «I buoni e i cattivi») sulla difficoltà di capire che cosa sia veramente il bene e che cosa il male, ma soprattutto sulla necessità che spesso abbiamo, per semplificarci la vita, di dividere artificiosamente il mondo tra buoni e cattivi, propone una serie di personaggi contrapposti della storia e delle favole come Caino ed Abele, Davide e Golia, Cappuccetto Rosso e il Lupo, Peter Pan e Capitan Uncino, Biancaneve e La Strega.
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Mostra precedente: artediplastica
inizio 24-09-2016 fine 05-11-2016
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Fin dagli inizi del Novecento, con lo scultore russo Naum Gabo, la materia plastica invade anche il campo dell’arte con proposte che sfruttano le peculiarità proprie della materia stessa. Sono quindi la leggerezza, la trasparenza, la duttilità che permettono di realizzare con facilità opere con caratteristiche cromatiche imprevedibili, da quelle completamente trasparenti a quelle riccamente colorate e dalle forme e dimensioni più disparate, quasi senza limiti realizzativi. È così che gli Artisti (solo per citarne alcuni Oldenburg, Dubuffet, Cesar, Burri, Tony Cragg, Arman, Pistoletto, Dadamaino) nel corso dei decenni hanno utilizzato la plastica per esprimersi sfruttandone la caratteristiche più diverse dalla luminosità alla opacità delle bruciature. La mostra «artediplastica» propone all’attenzione gli Artisti che hanno fatto dell’utilizzo delle materie plastiche la loro cifra inconfondibile: se, infatti, altri protagonisti del Novecento hanno utilizzato saltuariamente materiali sintetici, i nostri autori si sono invece affidati spesso o addirittura completamente alla ricerca nell’ambito della lavorazione di materie plastiche, seppur sostanzialmente molto diverse nelle varie declinazioni scelte. La rassegna propone, fornendo così una consistente panoramica, le opere di tutti gli Artisti che, per le loro caratteristiche, possono essere definiti I Plastici in quanto hanno utilizzato e si avvalgono tuttora della materia plastica in modo esclusivo per realizzare le proprie opere, come Gilardi, Lodola, Costalonga, Plumcake, Cracking Art, Ronda, Valente, Cella, Lady Be. Vengono inoltre presentati, tra i tanti, alcuni Artisti (definibili come I Contemporanei) che si sono serviti della plastica per creare importanti serie di opere o che ne hanno fatto uso solo in maniera saltuaria o occasionale per realizzare comunque significativi lavori (strettamente legati al proprio tempo), come Stefanoni, Castellani, De Molfetta, Schiavocampo, Cattelan, Marotta, Nido, Di Cola, Gallino, Sakurai, Bonomi.
Una mostra dunque, all’insegna della contemporaneità, con protagonista una materia, la plastica, che ha portato profondi cambiamenti sia nella produzione seriale sia nella ricerca Artistica, diventando così una vera e propria icona del Novecento.
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Mostra precedente: Vittorio Valente
inizio 11-06-2016 fine 16-07-2016
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Ha iniziato l’attività artistica nel 1986 occupandosi del rapporto arte-scienza, spaziando tra cinematografia e letteratura. Supportato in questa ricerca dall’uso del silicone, ha sperimentato nell’arco di più di venti anni la duttilità di questo materiale, apparentemente statico, da cui ha ottenuto forme e pigmentazioni assolutamente nuove.
In chiave di ricerca sulla connessione e sulla trasmissione d’informazione vanno le evocazioni che realizza nel ‘90 e nel ‘91 con il gruppo «Arte come evocazione» curato da Miriam Cristaldi e guidato da Claudio Costa. Nel 1993 è tra i fondatori con Omar Ronda, Alex Angi, Renzo Nucara, Carlo Rizzetti e Marco Veronese della Cracking Art, movimento che cerca di superare le apparenti antinomie tra artificiale/naturale, bello/brutto. Come la plastica deriva dal petrolio, uno dei più antichi materiali esistenti sulla terra, il silicone viene estratto dalla sabbia per sintesi chimica. Il silicone è un materiale che permette un linguaggio nuovo ma con dei limiti espressivi, superati dall’Artista attraverso una continua e instancabile ricerca e attraverso un percorso in continua evoluzione; alcuni elementi stilistici vengono modificati, abbandonati e ripresi in fasi successive.
Dal 1997 predilige l’uso delle installazioni, dove diversi elementi compongono il lavoro come in Guerrieri Silenziosi, Dermascheletri, Cellule Fatali, Virus, Viaggio Allucinante.
Le sue opere esigono un approccio multisensoriale; le superfici dermatiche non rifiutano di essere toccate, accarezzate, provocando l’attitudine ad un approccio multisensoriale del reale. Unendo al materiale artificiale pigmenti ad olio ottiene nuove tonalità cromatiche che lo portano, soprattutto nelle opere più recenti (Griglie, Cellule), a soluzioni monocromatiche: rosso, giallo e gli assoluti bianco e nero, caratterizzate da una sintetica, ritmata astrazione.
Innumerevoli sono le presenze in collettive, tra cui: Polveri di Stella, ovvero Stelle nella polvere, Fornace di Castello d’Annone, Asti 1990; Elogio alla Plastica, Desenzano sul Garda 1993; Odissea nello Spazio, Museo d’Arte Contemporanea di Tortolì, 2000; In viaggio verso Utopia, Biblioteca Pier Paolo Pasolini, Roma 2005. Frequenti sono state inoltre le personali in città come Savona, Genova, Torino, Milano, Firenze, Roma, Vicenza, Pisa, Verona. Le sue opere sono presenti in diversi musei tra cui: Museo de Arte Italiana de Lima, Museo di Villa Croce, Genova, Museum in Motion, Piacenza, Museo di Gubbio, Galleria d’Arte Moderna, Genova.
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Mostra precedente: arteinplastica
inizio 16-04-2016 fine 07-05-2016
La plastica invade anche il campo dell’arte con proposte che sfruttano le peculiarità proprie della materia stessa: la leggerezza, la trasparenza, la duttilità permettono di realizzare con facilità opere con caratteristiche cromatiche imprevedibili e dalle forme e dimensioni più disparate. La Mostra arteinplastica propone all’attenzione, riservandosi un futuro completamento, alcuni artisti che hanno fatto dell’utilizzo delle materie plastiche la loro cifra inconfondibile.
Marco Lodola realizza sculture luminose sia urbane che d’ambiente, rappresentando immagini pop. Se dunque il plexiglass colorato e/o smaltato è l’elemento base del suo lavoro, rimane sicuramente la luce artificiale la sua cifra. Omar Ronda ha fatto della plastica il suo habitat artistico: con la compressione a caldo di forme ed oggetti naturali realizza i Genetic Fusion, mentre con i Frozen, congela sotto uno strato di coloratissime e materiche superfici di resine plastiche i volti delle grandi icone da Elvis Presley a Brigitte Bardot, a Marilyn Monroe. Non sono quadri né sculture i tappeti natura di Piero Gilardi, ma frammenti di paesaggio naturale di campagna, di bosco, di mare, di torrente, riprodotti con forme perfette, sebbene con un materiale sintetico come il poliuretano a testimonianza dell’indispensabile presenza della natura. Fantastiche figure, in imprevedibili composizioni, costituiscono gli ironici e critici tridimensionali Personaggi di Gianni Cella, realizzati in vetroresina smaltata e proposti con colori forti e pastosi, provenienti da mondi lontani e fantascientifici, con significati a volte ermetici ed irridenti, dalle apparenze ludico festose. Il silicone trasparente e colorato come mezzo per indagare il panorama dell’universo microcellulare e biomorfo: le tridimensionali sculture di Vittorio Valente, rivestite di similpelle siliconica si presentano come Dermascheletri, Guerrieri Silenziosi, Virus o Batteri, mentre le tele delle Cellule e le Griglie creano suggestive composizioni. Le percezioni dei colori, il movimento virtuale con il coinvolgimento dello spettatore, sono alla base della sperimentazione cinetica di Franco Costalonga: Oggetti Cromocinetici e Gradienti di Luminosità. L’assemblaggio di particolari frammenti plastici, derivati da oggetti di uso quotidiano o da piccoli giocattoli, costituisce la particolare tecnica utilizzata da Lady Be per realizzare i suoi mosaici contemporanei: le immagini di Dalì dei Beatles o di Marilyn ripropongono una certa atmosfera pop.
Una mostra all’insegna della contemporaneità, con protagonista una materia, la plastica, che ha portato profondi cambiamenti sia nella produzione seriale sia nella ricerca artistica, diventando così una vera e propria Icona del Novecento.
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Mostra precedente: Lady Be
inizio 19-03-2016 fine 10-04-2016
L’assemblaggio di particolari frammenti plastici, derivati da oggetti di uso quotidiano o da piccoli giocattoli, costituisce la particolare tecnica utilizzata da Lady Be, al secolo Letizia Lanzarotti (Rho, 1990), per realizzare i suoi mosaici contemporanei. Una tecnica, quella del mosaico, molto antica. Risalgono infatti al 3000 a.C. le prime decorazioni a coni di argilla dalla base smaltata di diversi colori, impiegate dai Sumeri per proteggere la muratura in mattoni crudi e spesso utilizzata nei millenni (molto conosciuti sia i rivestimenti che i pavimenti realizzati dai greci e dai romani) fino ai più recenti esempi legati al Liberty e all'Art Déco. Ma, indubbiamente, ciò che rende veramente attuale tale tecnica è l’utilizzo di tessere non di marmi o pietre, non di vetro né di ceramica, ma di plastica: forse il materiale più nuovo della contemporaneità. Costruite quindi con l’utilizzo di questi frammenti sintetici, le immagini di personaggi conosciuti nel campo dell’arte, del cinema, della musica e della politica (da Marilyn a Dalì, dai Beatles a Picasso) ripropongono una certa atmosfera pop, mentre il riutilizzo di materiali, che hanno già avuto una propria diversa esistenza, si presenta come una sorta di rivitalizzazione in funzione della nuova destinazione d’uso. Centinaia di frammenti, dunque, ognuno con il proprio carico di ricordi e di memorie, raccolti e scelti in particolar modo per le proprie caratteristiche cromatiche, si trasformano in ritratti quasi accademici, lasciando intendere che smontati e riaggregati potrebbero assumere, ancora una volta, le fattezze di un’altra realtà, forse riproposta dalla stessa Autrice.
Lady Be vive e lavora a Pavia, dove ha frequentato il Liceo Artistico, e a Roma, dove risiede. Diplomatasi all'Accademia di Belle Arti di Sanremo, inizialmente si dedica al figurativo con studi a pastello e gessetti. Nel 2008 inizia l'interesse per l’utilizzo artistico di materiali di recupero. Dal 2010 espone in importanti collettive in diverse città in Italia e all’estero: Parigi, Amsterdam, Bruxelles, Malta, Milano, Rho, Sanremo, Roma, Brindisi, Lecce, Palermo. Nel giugno 2013 Lady Be realizza una curiosa Performance a Brescia, all’interno del Beatles Day, in cui tutti gli spettatori sono chiamati a staccare un pezzettino dell’opera (4 sagome dei Beatles a dimensioni naturali) lasciando i soggetti completamente «nudi». È del 2014 la svolta con due importanti esposizioni estere: a New York e a Parigi, sulla Torre Eiffel, ed una italiana, la I Biennale di Palermo, presentata da due importanti critici come Vittorio Sgarbi e Paolo Levi. Espone, poi, al Meam (Museo d’Arte Moderna di Barcellona) in occasione della Biennale di Barcellona. E’ presente in diverse fiere d’arte in Italia e all’estero: BAF di Bergamo, Arte Genova, Affordable Art Fair a Milano, Paviart, Carrousel du Louvre a Parigi. Espone inoltre ad Edimburgo, all’interno della Dundas Street Gallery e tiene una personale a Torino, presso la Galleria d’Arte L’Alfiere. La rivista artistica «Effetto Arte», dedica a Lady Be un corposo redazionale. Recenti sono le presenze nel 2015 a «Contemporary Paradise» all’interno dell’evento «Isola che c’è» a Palermo e al Premio Marco Polo a Palazzo Marin a Venezia, dove risulta tra gli artisti premiati.
Il Corriere della Sera segnala Lady Be tra gli investimenti sicuri del 2016, mentre una sua opera è entrata nella collezione permanente del Museo Macist di Biella, un’altra nella Fondazione Maimeri di Milano.
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Mostra precedente: Marilyn per sempre
inizio 28-11-2015 fine 10-01-2016
L’omaggio a Norma Jean Mortenson diventata poi Marilyn Monroe e trasformatasi in mito, musa, immagine, leggenda, icona del secolo scorso, consiste non tanto nel celebrare lo straordinario personaggio, ormai presente nell’immaginario collettivo di tutti, quanto piuttosto nel proporre ancora una volta l’opera di alcuni artisti che a lei hanno riservato una particolare attenzione.
L’attrazione per l’immagine di Marilyn, considerata a volte oggetto del desiderio, a volte soggetto biografico, risulta addirittura irresistibile per chi fa dell’immagine, se non lo scopo della propria vita, certamente l’essenza della propria attività. Una forza gravitazionale che spinge l’artista ad utilizzare una figura inconfondibile e indiscutibilmente conosciuta per proporre la propria cifra artistica.
Certo, un mito non muore mai, alla sua morte diventa immortale e Marilyn quando morì divenne Marilyn per sempre perché la sua vita fisica è finita ma non la sua storia.
Una storia ed un mito dunque senza fine, un successo ottenuto anche con il lavoro di molti artisti, alcuni dei quali sono presenti in mostra presso i locali della GlobArt Gallery di Acqui Terme (AL): Andy Warhol, che stravolgendo le regole della pittura, propone un’arte alla portata di tutti, con l’immagine di Marilyn riprodotta in infinite varianti di colore; Mimmo Rotella che attraverso i manifesti pubblicitari dei film strappati e lacerati fa emergere la star americana come fosse un simulacro della memoria; Omar Ronda, che con i suoi Marilyn Frozen (una sorta di ibernazione nella plastica) protegge le immagini rendendole inalterabili nel tempo; Ugo Nespolo che nei suoi puzzle scompone e reinventa metaforicamente la figura; Marco Lodola, che unisce il fascino della Diva a quello allegro della luce artificiale; Francesco De Molfetta, che rappresenta la Marilyn nella solita ironica-concettuale scultura; Gianni Cella, che propone, confermando la sua origine Pop, gioiose opere in vetroresina accessibili a tutti; Dario Brevi, che con le sue creazioni in medium density laccato pone le sue Marilyn tra la scultura e la pittura; Vittorio Valente, che ricopre le immagini con un derma dalle punte molli di silicone, avvolgendole così in una pelle semi-trasparente; Massimo Sansavini, che trasporta la Marilyn nel suo mondo onirico e fantastico, tra strani oggetti volanti, in un puzzle di legni lucidi e vivaci; Alessandro Di Cola che, sfruttando la sua abilità scultorea, propone in ottone un’estrema sintesi di Marilyn lasciando alla fantasia dell’osservatore il completamento dell’immagine; Lady Be, che trova nell’aggregazione di piccoli oggetti in plastica policromi il mezzo per rappresentare l’immagine di una Marilyn molto derivata dalla Pop Art americana; Carlo Pasini, che presenta la Monroe con una delle sue maschere realizzate con una pelle molto particolare: puntine da disegno colorate; Roberto Comelli che, scomponendo l’immagine su diversi piani in plexiglass, dilata l’immagine nello spazio; Alessandro Casati che, fedele alla pittura, prende a pretesto il volto di Marilyn per aggregare macchie di colore in una superficie giocosa e satura; Antonio De Luca, che inserisce con eleganti tratti di matita e pennello la Marilyn tra le sue donne solo sognate.
Cosa sorprende di questa rassegna, composta da oltre settanta opere, è la diversità dei materiali e di conseguenza delle tecniche di realizzazione utilizzate dai vari artisti, ma soprattutto e nonostante tutto, quanto in ogni caso risulti protagonista l’immagine di Marilyn, sempre e comunque riconoscibile.
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Mostra precedente: Renato Volpini
inizio 10-10-2015 fine 05-11-2015
Diplomatosi al Magistero Artistico di Urbino nel 1957, Renato Volpini (pittore, scultore ed incisore) trasferitosi a Milano, si muove dapprima in ambito informale, definibile come una liberazione stilistica, poi con ricerche figurative nell’ambito della Pop Art e dell’Immagine Critica degli Anni Sessanta, quando inventa macchine e costruzioni che si sviluppano sulla superficie e nello spazio, ed infine un terzo momento definibile come una somma articolata delle due precedenti, dove l’oggetto viene rappresentato con un’immagine spesso allucinata ed ironica. Presente già alla Biennale di Venezia nel 1962, partecipa anche a significative mostre collettive in Italia e all’estero, tra cui si ricorda quella alla Galleria Profili di Milano del 1964 (con Adami, Del Pezzo e Romagnoni) e quella alla Philadelphia Art Alliance nel 1967, insieme a Bonfanti, Cappello, Nangeroni e Scanavino. Da segnalare anche la presenza alla Quadriennale Internazionale d’Arte di Roma nel 1956, 1960, 1964. È l’epoca in cui l’Artista inventa macchine inutili, moduli, animali immaginari, personaggi digitali o marziani, marchingegni dalle forme oniriche e meccaniche, tutti caratterizzati da una vena irriverente e umoristica. Nei decenni a seguire ha continuato la sua ricerca realizzando nuove strutture con l’utilizzo dei materiali più diversi, come negli ultimi O.D.M. (Opere Originali-Digitali-Mediali).
Volpini, che ha alternato la sua attività artistica con quella di stampatore a Urbino, è presente con continuità sulla scena artistica nazionale, come dimostrano le presenze alla XXXVI Biennale d’Arte di Venezia nel 1972, nelle rassegne «Arte Italiana degli Anni Sessanta nelle collezioni della Galleria Civica d’Arte Moderna» al Castello di Rivoli (TO) nel 1985/86 e «International Print Exhibition» al Gilkey Center for Graphic Arts Art Museum, Portland, nell’Oregon (USA) nel 1996/1997, l’esposizione al Palazzo Ducale di Urbino nel 2002, la partecipazione alla mostra «Un Secolo di Arte Italiana. Lo sguardo del collezionista. Opere dalla Fondazione VAF» al MART di Rovereto nel 2005 e la recente pubblicazione, in tiratura limitata, dei volumi monografici «Volpini Anni Sessanta» e «Renato Volpini anni Sessanta… e oltre», dove l’Artista presenta oltre alle opere storiche anche la sua produzione più recente.
Un percorso quello di Volpini estremamente libero ed autonomo che gli ha permesso, come sottolinea Gillo Dorfles in un saggio del 2007, «di evitare l’incastellamento entro gli schemi dell’astrattismo o del naturalismo. In altre parole la sua opera, così complessa e ormai estesa nel tempo, ha potuto resistere alle ambigue lusinghe delle svariate tendenze che si sono avvicendate nel territorio dell’arte visiva recente».
La mostra presenta una serie di opere, quasi una mini antologica, realizzate dagli anni Sessanta (Spazio Cosmico, 1960) ad oggi (Macchina inutile, 1974, Pagina Tecnologica, 1980, Personaggio in divenire, 1998, Astronave, 2010), e di questi «giochi artistici» stupisce come anche quelli ormai storicizzati appaiano ancora oggi estremamente attuali, forse proprio perchè Volpini pur osservando le diverse avanguardie che si sono nel tempo susseguite, lo ha sempre fatto comunque in piena ed assoluta autonomia.
In tutti i periodi del suo percorso infatti, che abbiamo visto sintetizzabili in tre fasi, si percepisce una continuità strutturale se pur espressa con varianti a volte anche marcate, ma ciò che più caratterizza la sua produzione è l’assoluta mancanza di un confine e la continua proposta di soluzioni tra di loro in perenne contrapposizione. L’assenza di un confine fisico determinato, temporale, concettuale, linguistico, ma anche materiale di tecnica espressiva (ci si trova infatti di fronte al dubbio se considerare una sua opera pittura o scultura) procede parallelamente con l’assoluta libera interpretazione: ironico o drammatico?, divertente o tragico?, positivo o negativo?, utile o inutile?.
Il frantumarsi ed il rinnovarsi di forme e figure essenziali, l’accostamento di immagini per dissomiglianza, spesso con l’utilizzo del collage, dove sovente dal pessimismo dei toni emerge comunque un contagioso entusiasmo, ci traghettano in un mondo di evasione «al di là», prendendo in prestito le parole di Roberto Sanesi , «dell’inganno della speranza».
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Mostra precedente: Giorgio Griffa. Il paradosso del piů e del meno
inizio 30-05-2015 fine 31-05-2015
Questa volta alla GlobArt si presenta un volume “su” e “con” Giorgio Griffa, dove una storica dell’arte (Martina Corgnati), un giornalista scientifico (Giulio Caresio) e un filosofo (Roberto Mastroianni), dialogano sui percorsi millenari del «less is more» che soggiacciono alla vita e alla ricerca artistica, scientifica e filosofica dell’uomo.
Un libro dedicato, insomma, al paradosso del «less is more», in cui si intrecciano le riflessioni dell’artista Giorgio Griffa sulla pittura e la poesia, con il pensiero del “giornalista-osservatore di scienza” Giulio Caresio sui fondamenti della meccanica quantistica e le nuove conquiste delle scienze neurali, con la filosofica lettura del mondo di Roberto Mastroianni che disegna un interessante parallelo tra la pittura di Griffa e la speculazione filosofica di Arnold Gehlen.
Sarà presente Roberto Mastroianni, filosofo, curatore e critico d’arte, ricercatore indipendente di semiotica, estetica filosofica e filosofia del linguaggio presso l’Università degli Studi di Torino. Laureato in Filosofia Teoretica sotto la supervisione di Gianni Vattimo e Roberto Salizzoni, è dottore di Ricerca in Scienze e Progetto della Comunicazione, sotto la supervisione di Ugo Volli. Si occupa di Filosofia del Linguaggio, Estetica filosofica, Teoria generale della Politica, Antropologia, Semiotica, Comunicazione, Arte e Critica filosofica. Ha curato libri di teoria della politica, scritto di filosofia e arte contemporanea e curato diverse esposizioni museali. Ha tenuto seminari in differenti Università italiane e straniere.
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Mostra precedente: Concetto Pozzati
inizio 14-02-2015 fine 07-03-2015
Forse quella che lo stesso Pozzati considera una dannazione, cioè il lavorare sempre per cicli, risulta essere la cifra artistica di un percorso ricco di tappe, di soste e di riprese, di stanze vuote da riempire, di obiettivi raggiunti e di nuove sfide, di fogli bianchi da trasformare, legato indissolubilmente dal «filo rosso» della coerenza.
Ogni ciclo propone da un lato lo stile pittorico, ormai inconfondibile, e dall’altro mantiene comunque spesso particolari e figure che in qualche modo sono già presenti in opere precedenti e che già ci aspettiamo di ritrovare in quelle future, mentre altra costante, come ben evidenzia anche Sandro Parmeggiani, è il desiderio di rivisitare immagini tratte dalla cronaca o dall’arte del passato facendole interagire con la propria memoria.
La forte passione poi per il cinema, per l’immagine consequenziale quindi, è forse alla base dell’ormai lunghissimo cortometraggio girato con la fantasia di un regista attento allo scorrere del tempo contemporaneo e realizzato con un linguaggio autonomo ed originale frutto di contaminazioni e manipolazioni culturali.
Un percorso quello di Pozzati, nato a Vò (PD) nel 1935, ricco di esperienze e successi, iniziato dopo il diploma all’Istituto d’Arte di Bologna con un soggiorno a Parigi presso lo studio di grafica pubblicitaria dello zio Sepo, proseguito con la presenza nel 1957 al Premio «Morgan's Paint» di Rimini, con la prima personale al Salone Annunciata di Milano del 1959, con una pittura vicina al linguaggio organico-informale. Dai primi Anni '60, Pozzati si dedica poi ad una figurazione oggettiva, impostata su un'organizzazione geometrica dell'immagine, caratterizzata da tipici elementi dell'iconologia della Pop Art. In seguito si rivolge «come artista rapinatore» - come egli stesso si definisce - al patrimonio iconografico, sia per attingere a temi e rivisitare dipinti consacrati dalla tradizione sia per proporre nuovi assiemi di immagini, con forte intento ironico. Lungo gli Anni '80, l'Artista elabora anche assemblages di oggetti disparati come vecchie fotografie, buste, riproduzioni. Intanto è Ordinario delle Cattedre di Pittura dell'Accademia di Bologna, Firenze, Venezia e Direttore dell'Accademia di Urbino, Assessore alla Cultura del Comune di Bologna dal '93 al '96 e Accademico di San Luca. Nel '98 Direttore artistico della Casa del Mantegna. Nel 2005 riceve il «Sigillo Magnum» dell'Università di Bologna.
Dal 1955 partecipa alle principali manifestazioni nazionali e internazionali, tra le quali: Quadriennale di Roma nel 1959, 1965, 1973, 1974, 1986; Biennale di Venezia nel 1964, 1972, 1982, 2007, 2009; Biennale di San Paolo del Brasile nel 1963 e 1994; di Tokio nel 1963; Dokumenta di Kassel nel 1964; Biennale di Parigi del 1969. Numerose sono, inoltre, le antologiche tra le quali: Palazzo Grassi, Venezia 1974, Palazzo delle Esposizioni, Roma 1976; Galleria D'Arte Moderna, Bologna 1991.
L’intercomunicabilità tra i vari cicli è dunque anche la caratteristica dei temi presenti nella proposta espositiva, dove ad esempio, oltre ai temi della Cornice cieca e del Sottochiave, le immagini, realizzate con la consueta tecnica, della serie Quasi dolce, nel proporre una diversa visione dei dolci, dei dessert, suadenti in un momento di grigiosa costante omologazione, può essere terapeutica, vista come una «pausa dolce», così come i grandi telefoni del ciclo Occupato sottolineano l’anti-comunicazione di una società appiattita senza credibili prospettive ed entusiasmi.
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Mostra precedente: Massimo Sansavini
inizio 13-12-2014 fine 10-01-2015
Se Rosetta è atterrata da poco sulla Cometa 67P, certo Massimo Sansavini già nel 2009 con il suo ciclo di opere Del Cielo e delle Stelle aveva «preparato per noi», come ha scritto Orlando Piraccini, «un itinerario esplorativo nella dimensione dell’infinito, tutti dietro ad una cometa mai così luminosa, che vorrebbe raggiungere un improbabile pianeta terra». Se dunque siamo noi ad aver raggiunto la cometa, è innegabile che quel mondo fantastico dell’universo cosmico non finisce mai di affascinarci, di coinvolgerci in un viaggio tra la scienza e la fantascienza, tra la realtà e la fantasia, ed è certo che Sansavini può proporsi come la nostra guida interstellare. Coinvolti da altrettanta poesia e magia, ci addentriamo nei giardini di una natura inviolata, incantata, di una natura non ultima ma primigenia, attraversiamo siepi di foglie ed infiorescenze dagli insidiosi ed accattivanti titoli, ci perdiamo in cromatiche e lucidissime visioni proposte nel ciclo dei Kindergarten, mentre il coinvolgimento sentimentale in un mondo d’amore è proposto nel ciclo Softheart con la moltiplicazione di cuori, a volte vibranti nella loro instabilità, sospesi tra la tenerezza ed il sorriso e sempre realizzati con straordinaria precisione e perfezione. Questi i temi visibili nei puzzles esposti nella mostra Passioni Fantastiche tra quei cicli caratterizzanti e ricorrenti nella produzione artistica di Sansavini formatasi negli anni ’80, attraverso lo studio, la ricerca e l’esperienza personale, rivolta alla conoscenza e all’utilizzo del legno associato a lacche e resine industriali. Un percorso professionale il suo (Sansavini nasce a Forlì nel 1961), iniziato con il diploma presso il Liceo Artistico «P.L. Nervi» poi proseguito all’Istituto per il Mosaico «G. Severini» di Ravenna e all’Accademia di Belle Arti di Ravenna. Fra le tante esperienze maturate negli anni, ha sicuramente lasciato il segno il soggiorno nel 1999 a San Paolo del Brasile, dove su invito di Fabio Maghalaes, Presidente del Parlamento Latinoamericano e direttore della Biennale di Arte di S. Paolo, ha creato direttamente sul posto sculture esposte poi al Museo Brasiliano di Scultura (MU.B.E). Questa esposizione, di carattere itinerante, è stata portata al Museo Nazionale di Belle Arti di Rio De Janeiro per volontà dell’architetto Oscar Niemeyer e successivamente esposta presso la sede dell’Ambasciata Italiana a Brasilia, al Museo di Arte Contemporanea di Curitiba e a quello di Belo Horizonte, concludendo il suo percorso nel maggio 2003 nel «Museo de Ciencia e Tecnicas da Pontificia Universidade Catolica» di Porto Alegre. Tra le altre mostre si possono ricordare: 1992: Palazzo dei Capitani, Bagno di Romagna; Galleria Il Quadrato, Cesenatico (FC); 1993: Mostra Internazionale d’Arte Paola Petrini, Cesenatico (FC); Premio Europa, Bagno di Romagna (FC); 1994: Villa Prati, Bertinoro (FC); 1996: Galleria Comunale, Cesenatico (FC); 1998: Galleria Stefano Forni, Bologna; 2001: Le Favole dell’Est, Oratorio S. Sebastiano, Forlì; 2004: Storie di Mare, Castello degli Agolanti, Riccione; Da Picasso a Botero, Museo Civico, Arezzo; Allestimento di opere e scenografie negli studi televisivi di Rai Due per i programmi della stagione 2004-2005 In Famiglia e Piazza Grande, dirette dal regista Michele Guardì; Non solo favole, Maison Enrico Coveri, Galleria del Palazzo, Firenze; 2005: Collettiva all’Istituto Italiano di Cultura di Helsinki; Centro Internazionale di restauro «Alchimia», Cavezzo (MO); 2007: Recent Works, Kashogi Gallery, St. Augustine (Florida). Nel 2005 realizza il Palio Storico per la città di Gualdo Tadino (PG), mentre le immagini della mostra Storie di Mare sono state utilizzate per promuovere la manifestazione Incontri di Mare, curata dalla Regione Emilia-Romagna assieme al Ministero delle Attività Produttive.
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Mostra precedente: Mimmo Germanŕ
inizio 18-10-2014 fine 15-11-2014
Trasferitosi a Roma, dopo gli studi classici inizia la sua carriera da autodidatta lasciandosi influenzare dal clima post-concettuale. Il 1979 è un anno importante per Germanà, perché riesce a tirare le somme dei dieci anni di esperienze giovanili. Si può dire che opera una sorta di ricognizione sperimentando contemporaneamente diversi approcci alla pittura, dall’astratto minimale alla composizione di più tele, per emergere poi all’inizio degli anni Ottanta con la Transavanguardia, termine col quale il critico Achille Bonito Oliva designa un gruppo di artisti italiani che rilanciano una pittura di figurazione “calda”, visionaria, dai colori fauve, che recupera spunti e citazioni anche dall’arte del passato.
A questo recupero della pittura, con Cucchi, Chia, Clemente, Paladino, De Maria, l’artista siciliano partecipa con una personale carica di immaginazione di stampo popolaresco, “ingenuo”, con forti cadenze simboliche.
“Una fantasia abbagliante, colorata, rapida, di gialli, rossi, blu”, scrive Francesco Gallo, commemorando l’amico morto per Aids a soli 48 anni. Una sorta di espressionismo mediterraneo, ricco di colori e di odori, che coniugava il primitivismo delle forme con la carica dionisiaca delle tinte intense e delle materie forti per comporre scene di sentore mitico.
Questa energia fantastica gli valse nel 1980 la partecipazione alla Biennale di Venezia.
Nel 1987 viene assegnato il Premio Gallarate a quest’artista dalla personalità complessa, anticonformista e tenace, i cui temi fondamentali sono figure di donne dai caratteristici volti ovali ed incantevoli paesaggi mediterranei, propri del suo vocabolario iconografico. Numerose le mostre personali allestite nel corso degli anni, tra le quali: Galleria L’Attico (Roma, ‘70), Galleria Pio Monti (Roma, ‘78), Galleria Mazzoli (Modena, ‘80, ‘81, ’90), Galleria Advance (Dusserdorf, ‘81), Galleria Ariadne (Vienna, ‘82), Galleria Antiope France (Paris, ‘83), Galleria Ferrari (Verona, ‘83,’87), Galleria Barlach (Amburgo, ‘84), Biennale (Sidney, ‘84), Galleria La Bertesca (Milano, ‘85), Galleria Studio Kostel (Paris, ‘87), Galleria Soligo (Roma, ‘88), Galleria Civica (Valdagno, ‘88), Galleria A. Macght (Paris, ‘89), Centre Culturel Francais (Il Cairo ed Alessandria d’Egitto, ‘89), Musèe de peinture et de sculture (Istanbul,Turchia, ‘89), Delegazione d’azione culturale (Thessalonique,Grecia, ‘90), Runsterlrhaus (Graz, ‘91). Anche dopo la sua scomparsa vengono allestite importanti rassegne tra le quali: nel 1994 a Gibellina presso il Museo d’Arte Contemporanea, nel 2008 presso il Museo Archeologico Regionale di Agrigento, nel 2010 a Milano presso la Galleria Vinciana.
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Mostra precedente: Omar Ronda
inizio 13-09-2014 fine 04-10-2014
Dalle prime opere create attraverso l’assemblaggio mediante colla su tela di riproduzioni di piante o animali in plastica, l’artista biellese giunge nel 1991 a realizzare le prime opere con polimeri termoplastici trasparenti: i Frozen. Questi - evocando “(…) le pozzanghere congelate: proprio quelle pozzanghere che mi avevano tanto affascinato e che avevano popolato i miei sogni di bambino”, riferisce l’artista - sono il prodotto della sintesi chimica operata dalle alte temperature a partire da reagenti artificiali. Il risultato: oggetti naturali quali sassi, conchiglie e pesci paiono ibernati (i Genetic Fusion, 1991) insieme ai volti delle grandi icone della storia (come la Simonetta Vespucci del Botticelli) e del mondo dello spettacolo del XX secolo, da Elvis Presley a Brigitte Bardot alla famosa serie delle Marilyn Monroe.
Moltissime le presenze in mostre ed eventi tra cui: Epocale a Milano nel 1993; nel 1994 al Chiostro del Brunelleschi, Santa Maria degli Angeli (Firenze) e S.O.S. Maremuore, Mole Vanvitelliana (Ancona); nel 1996 Mille delfini a Milano, Piazza del Duomo, Arengario di Palazzo Reale; nel 2001 49° Biennale Internazionale d’Arte di Venezia, Tutto l’odio del mondo, Palazzo Reale (Milano); nel 2003 Beaufort Triennale d’arte del Belgio, Plastica d’Artista, Museo Nazionale della Scienza e della Tecnica (Milano); nel 2005 Sul filo della lana (Biella) a cura di Philippe Daverio, Fondazione delle Stelline (Milano) a cura di Martina Corgnati, Museo d’Arte Moderna di Louisville (Kentucky), Centre d’Art Villa Tamaris (La Sein sur Mer, Tolon); nel 2007 al Chiostro del Bramante (Roma), Una Mostra Bestiale (Orio al Serio, Bergamo), Chiesa di San Gallo e Caffè Florian, XII Biennale di Architettura, Spazio Thetis, Venezia, III Biennale d’Africa (Malindi) a cura di Achille Bonito Oliva; 2011 46° Biennale Internazionale d’Arte di Venezia, Padiglione Italia Curatore Vittorio Sgarbi.
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Mostra precedente: Alessandro Casati
inizio 07-06-2014 fine 03-07-2014
Foto: Adolfo Carozzi con Alessandro Casati, Scarperia (Fi) 2009
Nel 1984 si iscrive al Liceo Artistico di Firenze, dove si diploma con ottimi risultati. In questo periodo lavora anche presso la bottega artistica di Roberto Ciabani e partecipa alla realizzazione di alcune scenografie. Nel 1994, sposa Antonia e consegue il diploma di pittura all’Accademia di Belle Arti di Firenze. La sua attività artistica è frenetica e spazia in diverse direzioni, dalla scultura alla pittura, dalla fotografia alla video-arte, lavora argilla, pietra, bronzo, sperimenta la «materia pittorica» propria del territorio toscano, meditando una pittura di efficacia ottocentesca come la pittura macchiaiola.
Nel 1993 partecipa come giovane artista, rappresentante della città di Firenze, alla mostra Unoperuno (California State University, Accademia di Belle Arti di Firenze, Galleria Via Larga di Firenze) e nello stesso anno al famoso Caffè Fiorentino «Giubbe Rosse» (frequentato agli inizi del Novecento dai Futuristi) partecipa alla mostra Futura Uno, in «I giovani delle Giubbe», mentre l’anno seguente espone nella mostra Barcino et Florentia in Nova Pictura (Facoltà di Belle Arti di Barcellona, Espai d’Art Balmes 21 di Barcellona). Nel 1997 è rappresentante per l’Italia alla Triennale d’Arte per Giovani Artisti di Istanbul. Seguono una serie di appuntamenti che lo proiettano a stretto contatto con le giovani energie creative della nostra penisola come la Biennale dei giovani artisti del 1998 a Padova; l’anno successivo partecipa ad Atlante. Geografia e storia della giovane arte italiana; dal 1997 al 2001 si esprime prevalentemente con il design, collaborando con diverse aziende nel settore della moda e del made in Italy. Intanto dal 2001 al 2005 diventa titolare della cattedra di pittura presso l’Istituto d’Arte di Oristano in Sardegna. Vivere sull’isola lo aiuta a maturare ulteriormente il proprio linguaggio artistico, riappropriandosi completamente della pittura come mezzo espressivo privilegiato. Oltre ai boschi e alle foreste, squarciati da luci fortissime, a tratti violente ma capaci di dare vita a contrasti cromatici intensi e vibranti, i suoi temi sono anche momenti di vita quotidiana vissuta per lo più in aeroporti, stazioni, sottopassaggi, metropolitane, spazi urbani di transito dove lo spostamento delle figure si sfalda nelle luci artificiali suggerendo astratti scenari: è il periodo dei frames, scatti fotografici corrosi e veloci, pittoricamente ricostruiti, nei quali si racchiude l’essenza della sua ricerca: la contemporaneità. Nel 2004 è invitato a realizzare un’istallazione pittorica a Palazzo Pitti di Firenze, nell’ambito della rassegna nazionale Gemine Muse, mentre l’anno seguente esegue un ciclo pittorico per «Quarter», il Centro di Produzione per l’Arte Contemporanea del capoluogo toscano. Nel 2005 ottiene una cattedra di Pittura al Liceo Artistico «L. B. Alberti» di Firenze, dove è tuttora docente. Seguono diverse mostre ed attività artistiche di cui è interessante citare l’istallazione pittorica prodotta per il Museo Fattori di Livorno, all’interno della rassegna Tracce fuoricentro.
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Mostra precedente: Remo Bianco
inizio 10-05-2014 fine 04-06-2014
Remo Bianco vive l’infanzia in Via Giusti, nel cuore della vecchia Milano, dove è nato nel 1922 e dove frequenta i corsi serali all’Accademia di Brera e quelli di filosofia e psicologia all’Università. Nel 1941 viene chiamato alle armi in Marina: il cacciatorpediniere su cui è imbarcato affonda e Bianco, salvo nel naufragio, viene fatto prigioniero a Tunisi. Rientrato a Milano, al termine del conflitto mondiale, riprende gli studi e l’attività pittorica. Abbandonati gli esordi figurativi e dopo un avvicinamento all’Informale (Nucleare, 1952) che si sviluppa non solo nell’equazione tela-colore ma già nell’accumulazione di materiali, oggetti, simboli e fusioni, transita velocemente alla sperimentazione che caratterizzerà tutta la sua esistenza e la sua produzione, tanto da far scrivere a Gillo Dorfles nel 1965 “L’estro sin troppo vulcanico dell’artista l’aveva condotto a sbizzarrirsi nelle più varie e spericolate vicende”. Proprio questa sua innata attitudine a percorrere nuove vie, a non accontentarsi mai del risultato ottenuto, a continuare ad alzare l’asticella, è la forza propulsiva della sua attività che lo porta prima a realizzare una ricerca sulla terza dimensione con l’utilizzo di materiali alternativi come vetro, legno, lamiera, plastica, gesso, realizzando anche opere scavate, intagliate e sovrapposte, sintetizzate nella sigla-titolo 3D, e poi a comporre, profondamente influenzato dal dripping americano, i personalissimi Collage, carte e stoffe da lui stesso dipinte con intricate linee, poi ritagliate a frammenti e incollate su tela, ed in seguito a comporre quei bizzantini Tableaux dorè costituiti da tasselli più o meno regolari in foglia d’oro e d’argento, allineati su fondi a due colori che diventano la cifra personale della sua ricerca. Nel 1956 realizza le Impronte, calchi in gesso o in gomma di piccoli e futili oggetti; nello stesso anno raccoglie oggetti della quotidianità (pezzi di bambolotti, mozziconi di sigarette, matite, guarnizioni, boccette, scatole di crema, accendini, pezzi di lana, ecc.), li rinchiude in sacchettini di plastica appesi e ordinati su più file e li definisce Testimonianze.
Negli anni Sessanta compie in laboratorio esperimenti di Arte Chimica, propone mostre e ipotesi sempre più avanzate sino alla provocazione culturale, come le eccentriche sculture: Fumo, Pagode, Impronte viventi, Sculture calde, Appropriazioni, Sovrastrutture in neve chimica, Trafitture. Torna però alla pittura con i cicli Gioia di vivere (1970/1980), Arte elementare (1970/1972), Arte banale (1982) e Neofigurativo (primi anni ‘80).
Una vita, quindi, trascorsa in piena sintonia con il proprio tempo (scompare a Milano nel 1988) ed un’attività dedicata in modo eclettico, si potrebbe dire a trecentosessanta gradi, ad una libera sperimentalità, intendendo con questo neologismo evidenziare una libertà interpretativa senza limiti e condizionamenti: non bisogna dimenticare, infatti, che Remo Bianco si è formato alla scuola dello Spazialismo e che proprio Lucio Fontana, nel presentare l’Arista nel 1953 alla Galleria Montenapoleone 6A di Milano, scrive che i giovani pittori “oggi… partecipano alle impazienze del nostro tempo con nuove indagini, galvanizzati dalle straordinarie conquiste della scienza moderna“.
Antologiche gli sono state dedicate al Palazzo dei Diamanti (Ferrara, 1978), alla Galleria Lusarte (Milano, 1980), al Palazzo delle Albere (Trento, 1983), al Palazzo Reale (Milano, 1991), alla Permanente (Milano, 1992).
Oltre a numerose personali al Cavallino di Venezia e al Naviglio di Milano, è anche presente: al Village Art Center di New York (1955), al Circolo La Rovere di Mantova (1956), alla Galleria Scala di Verona (1957), alla Sala delle colonne di Rimini (1959), alla Galerie de Baume di Parigi (1960), alla Galleria Kasper di Losanna (1963), alla Galleria La Medusa di Roma (1965), alla Galleria Vismara di Milano (1970), alla Galerie Raymonde Cazenave di Parigi (1974), al Mitsumure Graphique di Tokyo (1984), al Palazzo Ducale di Mantova (1994).
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Mostra precedente: Mario Surbone
inizio 12-04-2014 fine 08-05-2014
Foto: Adolfo Carozzi con Mario Surbone, Treville (Al) 2013
«…Mi è difficile spiegare con certezza perché io sono diventato pittore…» afferma lo stesso Surbone, «…tutto forse ha avuto inizio quando avevo sei anni e ho lasciato, per una breve vacanza a Torino da un cugino pittore-restauratore, il piccolissimo paese del Monferrato (Treville) dove sono nato nel 1932. Ho dipinto in quei giorni il mio primo quadretto ad olio che ancora conservo. Ricordo tutto di quel momento: grande emozione!». La sua formazione artistica si compie prima al Liceo Artistico di Torino dal 1946 al 1950 e in seguito all’Accademia Albertina, dove è allievo di Felice Casorati. Risente comunque della situazione culturale di quegli anni, sia per il suo prolungato soggiorno a Parigi (nel 1957 e poi nel 1960/’61) che per il vivace clima artistico torinese. Dopo un inizio con opere naturalistiche informali, alla fine degli anni ‘50 e primi ‘60 nelle quali, se pur di ispirazione naturalistica dai colori tipicamente padano/nordici, comunque si percepisce già una tendenza costruttiva con sottointesi geometrici che influiscono sulla composizione e che già preludono al successivo superamento dello spazio bidimensionale della tela, dal 1968, dopo aver sperimentato l’uso di materiali diversi, passa ad esplorare nuove possibilità espressive: superfici monocrome, di cartone o di metallo, incise e modulate, tagli a formare diagonali, verticali, forme geometriche regolari. Rigore che trova continuità, dopo gli Incisi, anche, dal 1978, negli Acrilici su legno, su supporti sagomati, di grandi dimensioni, quasi sempre costituiti da più elementi che sconvolgono la logica ordinaria dello spazio al di fuori dei confini usuali del quadro e che forniscono rilievo all’effetto sensibile del colore. Le nuove opere nascono da una rinnovata relazione con la natura esaminata e resa in una forma geometrica, sia da un punto di vista formale che da quello simbolico e significante: una “misurazione della terra”, traducendo letteralmente dal greco “geometria” e quindi della natura stessa. Una natura, dunque, non solo apparentemente rappresentata da composizioni riconducibili a forme precostituite o ricostruite in un rigoroso assemblaggio di rette e curve secondo regole ben precise, ma in realtà anche una natura che si svela nelle sue essenze più nascoste attraverso una decennale ricerca oltre il limite conosciuto, quasi il tentativo di isolare il frattale di ogni elemento preso in considerazione: una natura comunque amica. Il rapporto sereno di Surbone con l’elemento naturale, tanto che spesso ha dichiarato “amo la natura”, è sempre evidente e anche i cromatismi utilizzati, se pur a volte acidi, ne sono un costante perenne omaggio. In sostanza, un dialogo con l’elemento naturale che l’Artista rende personale ed innovativo, che sa di mai concluso nonostante il continuo approfondimento del tema, quasi come il costante evolversi di una vita senza fine. Nel corso dei decenni tiene personali in diverse città tra cui: Trieste, Alessandria, Bolzano, Torino, Verona, Trento, Macerata, Sanremo, Varsavia, Roma, Albissola Mare, Bari, Genova, Cuneo, Milano, ed è presente in numerose rassegne tra le quali: Premio Nazionale di disegno a Torre Pellice (1963 e1970); Quadriennale della Promotrice delle Belle Arti di Torino (1964 e 1968); Premio Trento (1967); Biennale di Bolzano (1969); Espace Mental-Espace Phisique, Galleria Reliefs, Antibes (1972); XXVII Premio Michetti, Francavilla al Mare (1973); Arte in Italia negli anni Sessanta: oltre l’informale, Museo Progressivo, Livorno (1980); Astrattismo in Italia 1930/1980, Museo d’Arte Contemporanea di Villa Croce, Genova (1985); No limits world, Galleria La Bussola, Torino (1994); Continuità di segni, Maison des Artistes, Cagnes sur Mer; (1998); ‘900. Cento anni di creatività in Piemonte, Palazzo del Monferrato, Alessandria (2008); Sala Bolaffi, Torino (2007); Collegio Cairoli, Pavia (2009). La ricerca artistica di Mario Surbone, diversamente da quanto può apparire a un primo esame, non ha mai presentato salti improvvisi o bruschi cambiamenti di direzione: sono sempre rilevabili, infatti, le costanti tematiche poste alla base della sua riflessione e della sua poetica, dove la protagonista rimane costantemente la natura, se pur indagata, declinata, interpretata e rappresentata da una imperante geometria delle forme, attraverso un’analisi decostruttiva e ricostruttiva dell’immagine figurale.
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Mostra precedente: Enrico Paulucci
inizio 15-03-2014 fine 10-04-2014
Non la vedi ma esiste. Non la vedi ma ne puoi misurare l’intensità. Non la vedi ma ne percepisci la potenza e ne cogli gli effetti. Come l’invisibile elettricità è origine e anima della vita, così la passione per la pittura è stata per Paulucci la forza vitale della sua esistenza. Se già la sua affermazione “Se non dipingo non sono“ è stata la password, si direbbe oggi, per entrare nel suo mondo, per capire l’importanza del fare pittura nel quotidiano scorrere del tempo, ancor più la sua produzione ne costituisce la tangibile testimonianza. Non ho avuto l’occasione di conoscere Paulucci, ma attraverso l’analisi delle sue opere, le testimonianze scritte, le numerose fotografie e gli accorati e puntuali (direi preziosi) racconti di Laura Ferrero Riccio, ho proprio la sensazione che la pittura abbia scelto tra gli altri anche Paulucci per manifestarsi, per rendersi visibile agli occhi di tutti. Sensazione che comunque ricordo di aver riprovato quando ho avuto la possibilità di entrare nella sua casa studio dell’ottocentesco palazzo di Piazza Vittorio Veneto a Torino, dopo la sua scomparsa avvenuta nel 1999: quadri e libri sommersi in un latente profumo di pittura, quasi come se l’arte del dipingere, che per parecchi anni lì aveva soggiornato, facesse fatica ad abbandonare quei locali. Già, perché fin dall’inizio la vita di Paulucci è stata condizionata da questa innata propensione per la pittura; infatti, nato a Genova nel 1901 da un’antica famiglia emiliana (il padre è il Generale Paulucci Delle Roncole, la madre invece è di Montegrosso (AT), paese al quale l’Artista sarà profondamente legato e dove oggi riposa), si trasferisce nel 1912 a Torino dove compie gli studi classici laureandosi poi in scienze economiche ed in legge, ma coltiva la sua passione anche durante gli studi universitari, tanto che esordisce alla Quadriennale di Torino nel 1923. La sua scelta pittorica si orienta subito sul paesaggio e sulla natura morta di stilismo casoratiano. Nel 1929, di ritorno da Parigi, si unisce con gli amici Chessa, Galante, Levi, Menzio e Boswell costituendo il gruppo dei Sei Pittori. Gli anni Trenta vedono Paulucci impegnato in una intensa attività espositiva: tra l’altro è presente alla Quadriennale di Roma del 1935 e alla Biennale di Venezia del 1930 e del 1938. Chiamato nel 1939 alla Cattedra di Pittura all’Accademia Albertina, della quale ne sarà poi il Direttore e il Presidente, porta un’apertura sugli orizzonti europei. Durante la guerra, a seguito del bombardamento del suo studio, si trasferisce a Rapallo, dove inizia una serie di paesaggi di chiara ispirazione cezanniana. Nel secondo dopoguerra si assiste, nella pittura di Paulucci, a un repentino mutamento stilistico che porta l’Artista prima ad allinearsi alle poetiche neopicassiane degli astratti-concreti per poi avvicinarsi alla poetica Informale, protagonista in quegli anni in Italia; anche in questa fase l’Artista non rinuncia né alla musicalità del colore né alle sue cadenze ritmiche. Oltre la presenza alle mostre organizzate a Torino Pittori d’oggi. Francia/Italia, numerosissima è la partecipazione in rassegne, tra le quali la Quadriennale d’Arte di Roma (1955,1959) e la Biennale di Venezia (1954,1956,1966). Intensa è stata negli anni anche l’attività espositiva all’estero: Londra, Parigi, Berlino, Praga, Il Cairo, Nizza, San Paolo del Brasile, Stoccolma, New York, Copenhagen, Oslo, Göteborg, Skopje. A partire dagli anni Settanta, Paulucci ritorna ad un linguaggio pittorico pienamente figurativo e si dedica anche con particolare passione alla scenografia teatrale e a quella cinematografica, ma senza trascurare mai l’opera dipinta privilegiando l’atto pittorico: nelle tele scegliendo sempre, anche nelle opere più semplici, l’effetto del pennello, lo spessore della pasta ad olio difformemente distribuita, negli straordinari guazzi privilegiando il gesto deciso, la straordinaria trasparenza dei colori e nei tormentati policromi pastelli praticando la colta e sperimentata sovrapposizione di linee e tratti. Diversi sono stati i temi affrontati negli anni, dai ritratti, alle nature morte, ai paesaggi (marine, colline, città) e diverse le interpretazioni stilistiche, anche se sempre accompagnate da una ricerca figurativa, a volte ai limiti del formale, ma certamente incondizionatamente accumunate dal gesto pittorico. Se mai ci fosse bisogno di una conferma, si può ricordare che alla domanda di Recchilongo: “Se dovesse riassumere in poche parole il senso della sua ricerca, come la definirebbe?”, Paulucci rispose: “Pittura-pittura”. Ed è parafrasando quella risposta che la mostra Pittura Dipinta, partendo dal senso letterario del dipingere, ovvero rappresentare con colori un’opera pittorica ottenuta con l’arte di creare immagini, intende rendere omaggio alla grande passione di Paulucci: il dipingere. Sia le tele che i guazzi che i pastelli testimoniano come in ogni occasione l’Artista abbia vissuto per tutto il secolo scorso in stretta simbiosi con pennelli, matite e tubetti di colore identificando la gioia di vivere nella gioia di dipingere e trasformando così la sua vita in un'unica grande opera pittorica.
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Mostra precedente: Saverio Rampin
inizio 22-02-2014 fine 14-03-2014
Frequenta nel 1948 e nel 1949 l’Accademia di Belle Arti di Venezia sotto la guida di Armando Pizzinato, uno dei protagonisti di spicco del Fronte Nuovo delle Arti. In questi anni inizia la sua attività espositiva partecipando alle collettive dell’Opera Bevilacqua La Masa e nel 1949 al Premio Favretto. Nel 1950 partecipa alla XXV Biennale di Venezia dove espone l’opera Scuola di pittura mentre l’anno seguente tiene la sua prima mostra personale alla Galleria Sandri di Venezia. Negli anni Cinquanta la pittura di Rampin è caratterizzata da una forte e vitale carica espressiva, ricca di un acceso cromatismo, che lo allontana dalle prime esperienze di matrice cubo-futurista e lo avvicina ad un espressionismo astratto proprio degli artisti spaziali veneziani come Vianello e Bacci. Le sue opere, anche se non figurative, nascono da una visione attenta degli aspetti naturalistici, tanto che l’Artista definisce i suoi lavori Momenti di natura. Nel 1956 espone alla Galleria dell’Ariete di Milano, nel 1957 alla Galleria Numero di Firenze, mentre vince il premio per la pittura alle collettive dell’Opera Bevilacqua La Masa nel ’55,’56,’58, ’59 e riceve la medaglia d’oro alla III Mostra dei giovani pittori a Roma nel 1958. L’incontro, poi, con Virgilio Guidi nel 1955 rappresenta un momento nella formazione artistica di Rampin tanto che muta gradatamente il suo linguaggio espressivo.
Da una pittura impulsiva dalle tinte accese, impetuosa e materica passa, all’inizio degli anni Sessanta, a dar voce ad una liricità interiore che trova espressione in forme pallide e tremanti, di un cromatismo diafano e delicato. E’ uno sviluppo della ricerca sulla luce e sullo spazio che viene espressa con chiarezza dalle stesse parole dell’Artista: “Se domani non trovo spazio ideale oggi lo cerco”. Sono opere sospese tra l’acqua e l’aria, indecise tra l’opaco e il trasparente, trasversali ad uno spazialismo metafisico, dove lo spazio sempre illuminato e spesso non definito, si identifica con un assordante silenzio interrotto da piccoli segni ininfluenti nella concezione dell’opera: quasi un piccolo sasso che increspa temporaneamente la calma apparente della supeficie d’acqua planare nella quale scompare senza lasciare traccia nelle profondità delle emozioni.
Insegna al Liceo Artistico di Padova e dal 1970 ottiene la cattedra al Liceo Artistico di Venezia.
Tra le numerose mostre personali si possono ricordare: alla Galleria Il Canale di Venezia (1960, 1964); alla Galleria Belle Arti di Genova (1963), alla Galleria Il Traghetto di Venezia (1960, 1968, 1970, 1990). Numerose sono nei decenni le personali alla Galleria Pagani di Milano; nel 1993 la fondazione Pagani organizza anche un’antologica di Rampin al Museo d’Arte Moderna di Legnano-Castellanza, mentre l’Artista è presente a tutte le più importanti rassegne dedicate allo Spazialismo veneto come: nel 1987 Spazialismo a Venezia, Venezia; nel 1996 Spazialismo. Arte Astratta. Venezia 1950-1960, Vicenza; nel 1999 Venezia 1950-59. Il rinnovamento della pittura in Italia, Ferrara.
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Mostra precedente: Tino Vaglieri
inizio 11-01-2014 fine 06-02-2014
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Mostra precedente: Eugenio Carmi
inizio 23-11-2013 fine 20-12-2013
Dopo sei anni la Globart Gallery ripresenta una personale di Eugenio Carmi rendendo così un ulteriore omaggio ad uno dei protagonisti dell’arte astratta italiana del ‘900 e tuttora ancora in attività. Carmi nasce, infatti, nel 1920 a Genova e dopo un soggiorno in Svizzera, dove a Zurigo consegue il diploma in chimica, rientra alla fine della guerra in Italia. Conosce e sposa la pittrice Kiky Vices Vinci, dipingono insieme scorci di Genova “en plein air” e nel frattempo prende una formazione classica frequentando lo studio di Felice Casorati. Intanto si dedica alla grafica pubblicitaria, vince nel 1957 il Premio unico Internazionale per il manifesto della XI Triennale di Milano e dal 1956 al 1965 è responsabile dell’immagine all’Italsider. Con la sua pittura, dopo l’esperienza dei collages informali e con l’introduzione di materiali quali ferro, latta e plastica nel 1961 è presentato alla Galleria del Cavallino a Venezia. Nel 1963 apre la Galleria del Deposito a Boccadasse (GE), con lo scopo di creare un’arte accessibile al pubblico. Dopo alcune presenze negli Stati Uniti è invitato nel 1966 alla XXXIII Biennale di Venezia, sarà presente anche nel 2011, dove espone SPCE (Struttura Policiclica a Controllo Elettronico); intanto vengono pubblicati i suoi libri con i testi di Umberto Eco. Nel 1968 alla mostra Cybernetic Serendipity di Londra presenta il Carm-O-Matic, un generatore di pitture che riproduce sullo schermo combinazioni casuali di forme e colori e l’anno seguente inizia la collaborazione con la RAI. Dalla fine degli anni ’60 entra in una ricerca in cui la geometria diviene espressione del pensiero e di un linguaggio attraverso il quale la realtà si converte in formule elementari e universali, anche se la geometria di Carmi ha comunque niente a che fare con le regole matematiche, ed è infatti lo stesso Eugenio ad affermare che “la regola è l’intuizione” e che “lo spazio è mistero”. Dai titoli delle sue opere poi spesso l’Artista ci accompagna oltre il visibile in quel mondo un po’ misterioso e un po’ immaginario (Piccola illusione, 1971; La dimensione nascosta, 1986; Gli occhi del veggente, 1992; Non tutto è visibile, 2006). Protagonista dell’arte astratta e, per definizione quindi, lontano dalla realtà, Carmi ci invita dunque attraverso le sue forme geometriche ed i suoi giochi cromatici alla ricerca di una realtà che forse non c’è. Tornano in mente le parole di Bennato “…se ci credi ti basta perché, poi la strada la trovi da te… porta all’isola che non c’è…” che possono essere graficamente rappresentate dalle geometrie del nostro Carmi, continuamente impegnato alla ricerca di un’emozione ancora diversa ancora da scoprire, affidando a noi il compito di cercare la giusta strada per raggiungerla. E’ così che quadrati e cerchi intercettati da linee e strisce colorate si trasformano in possibili visioni nascoste, in pianeti immaginari, e attraverso gli occhi del veggente ci proiettano in un mondo tutto nostro costellato di dubbi e di illusioni proiettato verso utopiche rappresentazioni. Prigionieri dunque sull’isola delle nostre speranze, delle nostre aspettative, dei nostri sogni, ma forse anche un po’ rifugiati nell’Utopia, un isola che Thomas Moore immaginò e descrisse come una società ideale, anche se dobbiamo forse rassegnarci alla definizione letterale del termine: luogo felice inesistente, coniato con un gioco di parole, dal greco ou-topos (non luogo) ed eu-topos (luogo felice). Nel 1970 si trasferisce a Milano, nel 1976 insegna all’Accademia di Belle Arti di Ravenna. E’ del 1990 l’antologica allo Spazio Ansaldo di Milano e del 1999 la presenza alla XIII Quadriennale d’Arte di Roma, mentre intensa è l’attività espositiva degli anni seguenti con numerose presenze in spazi pubblici privati in Italia e all’estero, come alla Casa dei Carraresi di Treviso, al Museo Il Correggio a Correggio, all’Istituto Italiano di Cultura a Stoccolma, alla Galerie Orenda Art International a Parigi, al Museo D’Arte di Ravenna, al Museo Nazionale di Castel Sant’Angelo di Roma.
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Mostra precedente: Carlo Belli
inizio 19-10-2013 fine 08-11-2013
Forse, si direbbe oggi, per evitare un «conflitto d’interessi», forse per una forma di timidezza caratteriale, forse per eludere una sovrapposizione di ruoli, sta di fatto che, nonostante abbia esercitato la pittura fin dagli anni Venti, solo nel 1979 Carlo Belli propone le sue opere in una mostra pubblica a Roma. Critico e teorico d’arte, giornalista, scrittore, musicologo ma anche appunto pittore, Carlo Belli risente del contesto culturale della Rovereto (dove nasce nel 1903 e dove frequenta il Liceo Classico Rosmini) tra gli anni Venti e Trenta e della complicità intellettuale con il cugino Fausto Melotti, con Gino Pollini, con Luciano Baldessari e con Fortunato Depero. La preminente e felice attività di scrittore e di teorico d’arte, ne è testimonianza il saggio «Kn» scritto negli anni Venti e poi pubblicato integralmente nel 1935 (definito da Kandinskij «il vangelo di quell’arte chiamata astratta») ha sicuramente frenato l’esposizione della sua produzione pittorica, tanto da renderla quasi clandestina, proprio per quella difficile simultanea posizione di critico e contemporaneamente artista. Posizione non certo esclusiva nel panorama artistico italiano del secolo scorso: tra gli altri spiccano ad esempio il torinese Albino Galvano, filosofo, storico e critico d’arte, ma anche pittore, attento alle avanguardie, tanto da essere tra i fondatori del MAC a Torino; o il milanese Gillo Dorfles, la cui attività di critico non gli impedì di essere protagonista anche della stagione informale degli anni Cinquanta.
Considerato il padre dell’astrattismo in Italia, Belli realizza, già alla fine degli anni Venti, parallelamente ad una ricerca vicina al futurismo e alla metafisica, le sue prime opere astratte (oli e pastelli di piccolo formato) condotti, come osserva Sergio Troisi, con forme geometriche come ritagliate e giustapposte in una serie di variazioni, quasi a sondare l’assunto base del suo «Kn», secondo cui il contenuto di un’opera risulta dalla combinazione costante del colore con la forma «K» (che sono gli elementi costitutivi della pittura) per «n» aspetti (numero indeterminato) che tale combinazione può assumere. La sua può essere considerata una pittura nata dall’esigenza di mettere in pratica le sue scoperte teoriche, di verificarne la validità, quindi: astratto non per caso.
Negli anni Venti inizia anche a collaborare come critico musicale e d’arte per «Il Popolo», «Il Giornale di Trento», «La Libertà». Nel 1925 si reca a Dessau, dove apprezza il Bauhaus di Gropius, Mies van der Rohe, Mendelsshon e dove conosce Kandinskij. Nel 1929, trasferito a Brescia, lavora per il quotidiano «Il Popolo di Brescia» ed entra in contatto e collabora con la Galleria del Milione di Milano. Inizia poi a collaborare con la rivista «Quadrante», contribuendo in prima linea alla formulazione della teoria e alla difesa dell’astrattismo pittorico e dell’architettura razionale. A partire dal 1934 risiede a Roma, dove tra l’altro dirige il mensile di segnalazioni artistiche «Origini». Di questo periodo è il saggio critico «Lettera sulla nascita dell’astrattismo in Italia», pubblicato nel 1935. Dopo la guerra viene assunto per un breve periodo a «Il Giornale», per passare nel 1947 a «Il Tempo». L'interesse per le questioni del Sud d'Italia, unito alla passione per la storia antica e l'archeologia (sono in mostra anche alcuni disegni dal tema archeologico), lo spingono spesso in Sicilia e in Puglia. A partire dal 1971 Belli frequenta lo Studio Internazionale d'Arte Grafica L'Arco di Roma dove, nel 1979, espone per la prima volta le proprie opere pittoriche e parallelamente intensifica la propria attività di critico d'arte e curatore di mostre.
Appassionato conoscitore della musica, affascinato dall’architettura razionale, Belli ritrovava nella pittura astratta quei ritmi musicali oggetto dei suoi studi e quella purezza delle forme proclamata dagli amici architetti (Pollini, Terragni, Figini). Dopo un periodo di assemblaggi cromatici più marcati se pur per toni compatibili, le sue opere tendono sempre più all’assoluto, all’infinito, attraverso una ricerca di declinazioni cromatiche eleganti e quasi trasparenti come nelle opere degli anni Settanta/Ottanta esposte alla Globart Gallery.
Dopo la mostra alla Galleria Editalia di Roma nel 1983, è presente a Milano, nel 1988, allo Studio 111 mentre, nello stesso anno, la terza edizione di «Kn» per i tipi di Scheiwiller, si arricchisce di una terza lettera di Kandinskij. Degli ultimi anni si possono ricordare le mostre presso la Biblioteca Rosminiana di Rovereto (1989), la Sudtiroler Kunstlerbund di Bolzano (1990), il MART di Rovereto (1991), il Castello Aragonese di Taranto (1993), il Castello Svevo di Bari (1994), il Palazzo delle Esposizioni di Roma (1998), l’Associazione Weber & Weber di Torino (2005), l’Oratorio di Santa Cita di Palermo (2006).
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Mostra precedente: Grigionero
inizio 14-09-2013 fine 05-10-2013
Foto: Adolfo Carozzi con Piero Ruggeri, Avigliana (To) 2004
Se è vero che il nero è il colore del buio, del mistero, della paura e della sofferenza, è anche vero che, allo stesso tempo, è il colore dell’eleganza nella moda e del positivo nella contabilità. Allo stesso modo, anche il grigio può essere inteso come il colore della mediocrità, della monotonia, ma oltre a conferire un aspetto di prudente neutralità può essere associato alla sfera intellettuale con riferimento alla «materia grigia» del cervello. Anche la definizione scientifica del colore nero porta a due descrizioni apparentemente opposte ma complementari: il nero è la mancanza di tutti i colori che formano la luce oppure una combinazione di più pigmenti che insieme assorbono tutta la luce di ogni colore. Una continua, duplice identità paragonabile all’ambigua personalità dell’ombra riportata, sempre inesorabilmente nera nello spazio e grigia nell’atmosfera terrestre, comunque determinante nella rappresentazione grafica ed artistica per ottenere una visione tridimensionale o per immaginare una figura con un’arte tutta cinese. Il nero nell’arte c’è sempre stato, fin dai primi graffiti nelle caverne dove i simboli erano o di uno scuro marrone o in grafite nera, ripresi (parecchi anni dopo) da tanti artisti che nella storia dell’arte hanno rielaborato il linguaggio primitivo dei segni. Era il colore del fumo, insieme naturalmente al grigio. Il nero è l’atmosfera cupa del Gotico, è il buio dei dipinti di Caravaggio o delle ombre dei volti di El Greco o delle paure dell’Espressionismo tedesco. È il malessere dei corpi di Francis Bacon; è il quadrato di Ad Reinhardt che ha ripetuto sempre lo stesso sconvolgente modulo: quadrato nero su quadrato nero (Black Paintings); è la base del processo d’indagine senza fine di Pierre Soulages, conosciuto anche come The painter of black, dove il nero è il punto di partenza e di arrivo; è anche una fase estremamente importante della ricerca artistica di Alberto Burri (Cellotex e Cretti). Oltre alle tecniche tradizionali, come le pitture ad olio o a tempera, anche materiali forti come il ferro, il piombo, l’acciaio, l’alluminio, sono stati i protagonisti del «grigionero» nelle opere d’arte. Scontato, poi, ma intramontabile è l’uso della grafite, con la quale da secoli gli artisti hanno illustrato il proprio sentire con la realizzazione dell’opera disegnata utilizzando le più disparate tecniche. La mostra propone alcuni nomi per un breve percorso monocromatico di autori con opere e creazioni dedicate al nero e al grigio, colori delle origini e dell’oblio, ma anche dell’ordine e del rigore. Troviamo quindi il liquido monocromo grigio di Piero Ruggeri (Grigio per Terray, 1988, cm 140x110), che sotto la spessa e corrugata materia ad olio nasconde impercettibili grumi di altri colori, quasi come dispersi nel magmatico oceano delle emozioni o sopraffatti dall’inesorabile scorrere del tempo. Non si arrende invece al passare delle stagioni la dura, retorica e forse inquietante immagine di Sergio Ragalzi (Ombre, 1986 cm 205x245), un lavoro interiore ed esistenziale, formato, come sostiene lo stesso artista, «da due componenti: una materica e l'altra figurale, non figurativa ma di elementi corporali identificati con il malessere dell’esistenza, e con tutto ciò che comporta». Per Omar Galliani parlare solo di disegno può sembrare addirittura riduttivo: le sue opere su tavola di pioppo, infatti, sono eseguite con la matita, ma la mina di piombo, addossata alla irregolare superficie del legno, ne viene a fare parte integrante penetrando tra le scalfiture, tra le imperfezioni, per rigenerarsi in una nuova figura. Nelle sue opere realizzate, si può dire, «in punta di matita» (Nuovi fiori, 2005, cm 100x100), il minuscolo tratto delle linee, percepito solo da una vista ravvicinata, si trasforma nella sorprendente, compiuta immagine quasi fotografica. Emilio Scanavino, invece, «sia nelle più dense e sedimentate paste materiche, sia nella inquieta mobilità del segno» (G.M. Accame), si rivela in un informale dove il nero e i grigi sono indiscussi protagonisti. Un segno, il suo, che ha accompagnato tutta la sua produzione artistica in una mai placata ricerca interiore, caratterizzata da continui tormenti aggrovigliati, annodati, spesso affioranti da indefinite, nere superfici, come nella grande datata tela (Bestiario, 1961, cm 200x300). In evidenza anche Mimmo Paladino, uno dei principali rappresentanti della Transavanguardia Italiana, con uno storico lavoro del 1983 (Carro di guai, cm. 200x125), dove, come sempre, figure senza punti di riferimento storici, segni e simboli privi di valori narrativi, colmano l’opera di tensione come in continua attesa di qualcosa che tarda a manifestarsi. Tra i materiali non tradizionali, oltre al tendaggio in piombo grezzo di Mariani, colpisce per l’originalità la lastra in alluminio di Di Cola dove il giovane artista romano, modellando, piegando, lucidando, spazzolando, carteggiando, ritagliando, incidendo la lamina trasforma, vitalizza ed umanizza un materiale apparentemente freddo e amorfo come l’alluminio, reinventandosi un confine di un paesaggio forse nuvoloso, forse fantascientifico o forse solo emotivamente nostro. Sono anche esposti alcuni preziosi disegni su carta tra cui la Montagna di Sironi, la Composizione Astratta del ’37 di Veronesi, il Progetto acquarellato di Uncini o i Paesaggi di Paulucci. Sono esposti, oltre ad opere di Sirello, Vedova, Brunori, Schiavocampo, Dall’Olio ed alcune opere storiche di Antonio Carena, anche preziosi disegni su carta.
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Mostra precedente: Luca Dall'Olio
inizio 06-07-2013 fine 02-08-2013
Dopo il Liceo Artistico a Brescia, si diploma nel 1980 all'Accademia di Belle Arti di Milano. Nel 1986 viene pubblicata la prima monografia dedicata al suo lavoro e intitolata «Luca Dall'Olio, un giovane principe nell'impero dei segni». Nel 1990, in occasione della mostra a Palazzo dei Diamanti a Ferrara, è pubblicata la monografia «Sedimentazioni Sentimentali». I frequenti viaggi intorno al mondo rappresentano per Luca Dall'Olio una continua fonte di ispirazione e osservazione. Partecipa alla XII Esposizione Nazionale Quadriennale di Roma. Espone al Museo Pithecusae di Ischia. Presenta le sue opere alle mostre: «Da Picasso a Botero» al Museo d'arte moderna e contemporanea di Arezzo, al Palazzo Albertini di Forlì e alla rassegna dal titolo «Artisti in archivio» all’Archivio di Stato a Roma. Nel 2006 la Fondazione del Museo Crocetti dedica all'artista una mostra retrospettiva nei suoi locali di Roma con la pubblicazione del catalogo «Nei desideri del giorno». Nello stesso anno, a cura di Gabriele Boni, viene pubblicata la monografia «A cielo aperto». Nel 2007, in occasione della mostra alla fondazione Cominelli, viene data alla stampa la monografia «Utopia linfa creativa. Luca Dall'Olio e il moderno sogno”. Nel 2009, al Reàl Circulo Artistico Museo Dalì di Barcellona, presenta «Sobra el Papel». Nel 2011, in occasione della mostra tenutasi presso Palazzo Oddo ad Albenga (Sv), esce il catalogo «Dell'anima il paesaggio». Partecipa nel 2011 alla Biennale di Venezia, 54 Padiglione Italia, e all'esposizione «Meridiano Acqua Meridiano Fuoco» di Venezia (Magazzini del sale & Cà Zanardi). Scrive di lui Vittorio Sgarbi: «…pittore di sogni, Dall'Olio può essere collocato nel territorio della tradizione surrealista, anche se la sua immaginazione tende più a chiudersi nel mistero del suo significato globale, piuttosto che espandersi in un'interpretazione analitica e psicologica…». Floriano De Santi invece si sofferma sull’aspetto cromatico delle opere di Dall’Olio sottolineando che il «suo lavoro vecchio e nuovo nasce attraverso una sorta di stratificazione in cui si avvicendano dense coltri di colore - rosa pallidi, violetti lavanda, verdi salvia, gialli dorati, bianchi cotone, rossi scarlatti e reperti materici di fragile e impalpabile consistenza, trasparenti nuances e fondi dorati, quasi a restituire un significato di un percorso empirico e fortemente connotato in senso psichico, che vive e si rigenera di sedimenti della memoria».
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Mostra precedente: Luiso Sturla
inizio 08-06-2013 fine 04-07-2013
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Mostra precedente: Giuseppe Uncini
inizio 04-05-2013 fine 29-05-2013
Dopo le vicissitudini del periodo bellico ed una breve frequentazione dell’Istituto d’Arte di Urbino nel 1953 si trasferisce a Roma dove è invitato alla VII Quadriennale di Roma (sarà anche presente nel 1965,1973,1986,1999), intanto in pieno fermento informale realizza una serie di opere chiamate Terre, nelle quali si avverte una chiara attenzione materica e naturalistica. La svolta nell’evoluzione artistica di Uncini è del 1958 con la creazione del primo Cementarmato, un'opera/oggetto costituita da una tavoletta di cemento grezzo rinforzato da rete e ferri, dove la materia non è più informe ma dotata di un senso proprio. Si susseguono diverse mostre che vedono insieme la cosiddetta “Giovane scuola romana”: Uncini, Festa, Lo Savio, Angeli e Schifano. Nel frattempo realizza parecchi gioielli in oro e argento, insegna dal 1961 al 1983 all’Istituto d’Arte di Roma e nel 1961 è uno dei fondatori del Gruppo 1. La ricerca di Uncini prosegue dal ‘62 al ‘65 con i Ferrocementi, dove il cemento gettato a creare superfici neutre si contorna di un tondino in ferro che talvolta prosegue all’interno dello spazio, sottolineando la contrapposizione spaziale tra linea e superficie. Seguono il gruppo di lavori Strutturespazio che saranno poi presentati alla XXXIII Biennale di Venezia del ‘66, precursori delle Ombre in cui l’artista costruisce materialmente sia l’oggetto che la sua ombra. Nel 1968 Palma Bucarelli gli commissiona la Porta aperta con ombra che sarà esposta a divisione di due ambienti nella Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma. Segue la serie di opere dei Mattoni, dei Tralicci e dei Muri di cemento. Nel 1984 Uncini è Nuovamente alla Biennale di Venezia con una sala personale mentre innumerevoli negli anni sono le personali e le presenze in importanti mostre. Combinando il cemento e il ferro, Uncini concretizza la sua idea di costruire oggetti, nel senso di comporre e scomporre, combinare e giustapporre, aprire e chiudere, concretizzare e materializzare lo spazio ed il segno; segno come presenza, spazio come misura. Nelle opere su carta Uncini mette a frutto la sua grande perizia di disegnatore acquisita quando, tra il ‘48 e il ’49, trova impiego presso l’industria grafica come disegnatore-litografo. Un’abilità esecutiva ed un piacere particolare per il lavoro manuale che segneranno profondamente la sua arte. Ne sono testimonianza le opere realizzate con tecniche miste sul supporto cartaceo, quasi sempre la carta a mano di Fabriano, dove le terre, gli ossidi, i pigmenti prima e l’acquarello, la china, la graffite poi rendono con sorprendente precisione e realismo le superfici di calcestruzzo a volte arricchite da elementi sovrapposti in carta di diversi spessori, a volte con segni cavati o leggermente in rilievo che ne esaltano una tattilità microtridimensionale, a volte arricchite da elementi in ferro tanto da renderle veramente tridimensionali.
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Mostra precedente: Antonio De Luca
inizio 16-03-2013 fine 20-04-2013
Donna da “domna”, forma sincopata di “domina” cioè “signora”, ben si accosta alle figure femminili che ci propone De Luca. Sono signore le sue, donne pensierose, romantiche, delicate e morbide, profumate, a volte divertenti, delicatamente colorate nelle mise da modelle con i vestiti preferiti, pudicamente adagiate in pose riservate e timide. Sono sempre signore le donne di De Luca, anche quando ricordano note figure prese in prestito dalla storia dell’arte, da Botticelli a Klimt, da Picasso a Matisse, o affioranti dai nostri più nascosti e profondi sentimenti. Donne che parlano al cuore di chi le osserva, mamme, mogli, fidanzate, sorelle, amanti senza tempo, presenze silenziose al nostro fianco, protagoniste della vita quotidiana o desiderate e idealizzate nella nostra mente. Comunque, sempre signore quelle descritte dal nostro Antonio. Women che celebrate, idealizzate, amate dalla letteratura, dalla musica, dalla scultura, dalla pittura e dal cinema, ritroviamo nelle femmine proposte da De Luca come icone della passione, come compagne inseparabili, come fantastico ed accogliente rifugio. Come al solito il tratto è deciso, diretto, il gesto realizza con velocità le immagini presenti nel pensiero dell’artista quasi a voler scongiurare la possibilità di perderle e di non poterle più recuperare, figure da non ritenere in memoria, ma piuttosto da rivelare agli altri senza rimandi senza incertezze senza ripensamenti. Una passione, la sua per la pittura, per la figura in particolare, che anche se incompleta nei tratti non delude mai, non lascia mai lo spettatore nell’incertezza, nel dubbio, ma anzi lo invita a partecipare, a fare proprie le emozioni, le sensazioni proposte. Cromie delicate, declinate nello stesso colore, punti e fasce entrano ed escono dai contorni in uno spazio senza reali dimensioni, senza accertati confini e predeterminate costruzioni, quasi in oniriche visioni dalle sorprendenti prospettive in costante espansione. Anche nelle diverse dimensioni delle opere De Luca mantiene la sua inconfondibile cifra, sviluppa compiutamente il suo tema nel piccolo formato con la stessa intensità delle grandi carte, preziosi i suoi acquarelli, come rappresentative delle sue capacità pittoriche sono le piccole tele e le materiche ceramiche.
Vincitore del Premio Nazionale di pittura Romano Reviglio a Cherasco nel 2012, Antonio De Luca ritorna alla Globart Gallery con una personale di grandi opere dal titolo Women. Nato a Pompei nel 1977, da anni trasferitosi a Valenza (AL) dove ha frequentato l’Istituto d’Arte Benvenuto Cellini iscrivendosi poi all’Accademia di Belle Arti di Brera, ha ormai al suo attivo importanti esposizioni personali tra le quali nel 1995 Zarathustra Art Space di Alessandria, nel 2003 Nowhere Gallery at Sant James Show Room di Bordeaux e Christie’s Education di Parigi, nel 2004 Nowhere Gallery di Milano, nel 2009 Studio Lucio Fontana di Albisola, nel 2010 Studio Dieci di Vercelli, nel 2011 Zaion Gallery di Biella e Galleria Il Vicolo di Genova. Numerose sono anche le presenze in collettive pubbliche come nel 2009 alla rassegna 900 Cento anni di Creatività in Piemonte a Palazzo Cuttica ad Alessandria o quelle del 2011 al Museo di Ameno (NO) e al Museo di Sant’Agostino di Genova.
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Mostra precedente: Astratto & Concreto
inizio 09-02-2013 fine 09-03-2013
Foto: Adolfo Carozzi con Carla Accardi, Roma 2004
Se da un punto di vista grammaticale non è sempre facile distinguere il concreto dall’astratto, visto il diverso significato di certi vocaboli della lingua italiana (si pensi ad esempio al concetto del termine capace per un recipiente e capace per una persona), ancora più sottile è la differenza tra l’astrattismo e l’arte concreta. Intendendo per astrattismo la ricerca della forma pura tramite colori e forme geometriche e definendo con termini diversi le altre esperienze non figurative come espressionismo astratto, informale, eccetera, è quasi impercettibile la differenza tra l’astratto geometrico e la proposta, nel dopoguerra, del MAC (Movimento Arte Concreta). L’Astrattismo, nato nei primi anni del ‘900 dalla scelta degli artisti di negare la rappresentazione figurativa per esaltare i propri sentimenti attraverso forme, linee e colori in composizioni geometriche, si propone come il rifiuto della realtà anche se da essa a volte prende ispirazione, mentre l’Arte concreta attinge a forme, linee e colori elaborati dalla personale immaginazione dell’artista anziché dai processi di astrazione delle immagini della natura e lontana da ogni significato simbolico. Il percorso della pittura astratta italiana, che si snoda nei decenni non attraverso una linea del tutto continua ma nello stesso tempo neanche con strappi troppo violenti, transita attraverso diverse e diversificate esperienze tutte comunque legate dal comune intento di evidenziare la dicotomia tra la realtà e la sensibilità emotiva degli artisti espressa con un linguaggio autonomo e privo di riferimenti reali. Ne sono la prova le opere in mostra realizzate da alcuni grandi protagonisti dell’astrattismo italiano e del MAC, tra i quali spiccano nomi come: Enrico Bordoni, tra i primi ad aderire al MAC, nel 1951 presente alla mostra Arte astratta e concreta in Italia alla GAM di Roma con opere a campiture strettamente compatte e spesso geometricamente spigolose; Attanasio Soldati, fondatore con Dorfles, Monnet e Munari del Movimento Arte Concreta nel 1947 a Milano, già all’inizio degli anni Trenta aveva iniziato ad elaborare, indagando le potenzialità espressive della forma e del colore, opere di un rigoroso astrattismo geometrico; Piero Dorazio, che da quando nel 1947 con Accardi, Attardi, Consagra, Guerrini, Perilli, Sanfilippo e Turcato dà vita al gruppo Forma 1 prosegue la sua intensa attività pittorica in una costante ricerca sul colore, rompendo le superfici geometriche in tessuti ordinati ricchi di segni quasi a voler modellare e filtrare la luce; Carla Accardi, sempre legata alle problematiche dello sviluppo dell’intreccio, con un rincorrersi quasi automatico del segno dapprima monocromatico e poi con una vasta gamma di colori; Achille Perilli, che dalle opere della fine degli anni Quaranta orientate contemporaneamente verso la geometrizzazione e il contenuto simbolico-cromatico a quelle più recenti, quando le sue figure irregolari ed inverosimili giocano sull’ambiguità prospettica, ha quasi sempre rivolto la sua attività pittorica ad una rappresentazione astratta; Giulio Turcato, tra i fondatori dell’Art Club a Rom, rimane costantemente impegnato sul fronte dell’astrattismo con opere che testimoniano la tensione tra forma e colore e la ricerca di nuovi orizzonti spazio temporali; Albino Galvano fondatore con Biglione, Levi Montalcini, Parisot, Rama e Scroppo del gruppo torinese del MAC, anche in questo periodo di ricerca senza rinunciare a rimanere dentro alla pittura associa l’immagine ad un oggetto, anche se non alla sua sostanza, dove le sagome, fini a se stesse, sono un pretesto per dipingere; Bruno Munari, grafico, designer, pittore, scultore, dopo le esperienze astratte degli anni Trenta affronta le ricerche visive con opere anche tridimensionali fino agli enigmatici positivi-negativi dove lo spettatore sceglie tra la forma in primo piano o quella di fondo; Luigi Veronesi, protagonista della stagione astrattista italiana degli anni Trenta (aderisce nel 1934 al gruppo parigino Abstraction-Creation), nel secondo dopoguerra, aderendo al MAC, ha continuato le sue ricerche in ambito astratto-geometrico con iniziative molto personali come le trasposizioni cromatiche di partiture musicali o le sperimentazioni fotografiche del fotogramma astratto; Gualtiero Nativi, firmatario del Manifesto dell’Astrattismo Classico nel 1950, con dipinti caratterizzati da un intensa vibrazione e da un utilizzo del colore nelle più diverse sfumature cromatiche, rimane tra i maggiori protagonisti dell’astrattismo fiorentino del dopoguerra. Sono inoltre presenti in questo spaccato dell’arte astratta contemporanea proposto dalla Globart Gallery, le opere di altri artisti con esperienze geometriche come Enrico Sirello, Rocco Borella, Carlo Nangeroni, Renato Spagnoli, Eugenio Carmi, Nicola Carrino.
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Mostra precedente: Albino Galvano
inizio 15-12-2012 fine 19-01-2013
Intorno al 1954 si accosta all'Informale, non nella sua interpretazione naturalistica ma secondo una declinazione di linguaggio asemantico, con la presenza di allusioni simbolistiche. Sono di questo periodo opere nelle quali si può rilevare anche certe valenze di «surrealismo astratto» proprie dei nucleari e dell'art autre.
Dal 1958/59 ha una ripresa di motivi neoliberty, sempre con valenze informali ma tendenti a recuperare, con una nuova definizione d'immagine, la figuratività trasformando o meglio puntualizzando i feticci laici in emblemi: da sottolineare, in particolare, l'utilizzazione di motivi decadentisti come il fiore dell'iris caro a Mallarmé e all'arte decorativa della fine del secolo scorso.
Nel dopoguerra oltre alle principali manifestazioni torinesi ( Mostra Internazionale dell'Art Club, Francia - Italia 1951/1953) ha partecipato alle Biennali di Venezia nel 1948, 1950, 1952, 1954, 1956 e a numerose collettive in Italia e all'estero come: Quadriennale di Roma, 1948,1965; XX Siécle, Parigi 1951; Arte Astratta e concreta, Galleria d'Arte Moderna, Roma 1951; Mostra d'Arte Moderna, Torre Pellice dal 1953 al 1974; Collettiva alla Permanente, Milano 1955; Mostra alla Maison de France, Berlino 1957; Premio Arezzo 1960; Premio Fiorino, Firenze 1961;L’informale in Italia , GAM di Bologna 1983.
Negli anni Sessanta la sua pittura acquista elementi emblematici più definiti nei cicli dei Nastri, delle Bandiere, dei Padiglioni e degli Anelli di Moebius e, successivamente, attraverso l'uso di una scrittura-segno, diventa sempre più un'operazione con forti connotazioni mentali e culturali. Nei quadri dell'ultimo periodo si assiste ad un recupero di elementi figurativi (i Massi,le Rocce) intesi come frammenti della memoria della pittura. Ha collaborato con molte riviste d'arte e di filosofia e oltre alle personali ha partecipato a diverse rassegne e collettive tra le quali:Torino tra le due guerre, Galleria Civica d'Arte Moderna, Torino 1978.
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Mostra precedente: Carlo Nangeroni
inizio 10-11-2012 fine 10-12-2012
Nelle geometriche ed articolate strutture di Carlo Nangeroni si percepisce un lento, progressivo movimento, quasi un fluage costante ed irreversibile delle note che formano la composizione.
Già, perché il gioco cromatico delle sue opere evidenzia la presenza di una latente musicalità, percepibile attraverso la pacata e a volte spericolata alternanza di forme e colori.
È un movimento interno, potremmo dire insito nella materia stessa della tela, non visibile, come quello del calcestruzzo, ma percepibile in questo caso non da scientifici strumenti ma dalla personale sensibilità dell’attento osservatore.
La sua ricerca, sempre attenta alle declinazioni della luce e del colore, si inoltra oggi tra le maglie di un microtessuto costruito con musicale armonia dettata dalla gradevole, stranamente provvisoria, disposizione dei segni nello spazio, quasi a rincorrere la disposizione delle note sullo spartito musicale nell’intento di sollecitare le vibrazioni delle emozioni.
Nangeroni, presente con una serie di opere recenti alla Globart Gallery, nasce a New York il 24 giugno 1922 da famiglia di emigranti lombardi.
Nel 1926 raggiunge l'Italia per studiarvi. Dal 1938 al 1942 frequenta i corsi della Scuola Superiore di Arte Cristiana “Beato Angelico" di Milano e nel contempo i corsi serali a Brera per poi, nel 1946, tornare negli Stati Uniti e stabilirsi a New York. In quegli anni entra in contatto con le idee ed i protagonisti dell'action painting come Willem de Kooning e Franz Kline. Nello stesso periodo conosce e si interessa agli esperimenti su suoni e rumori che il compositore Edgar Varèse conduce nel suo studio laboratorio di MacDougal Street. Le opere di questo periodo, di orientamento astratto espressionista, verranno poi esposte in una personale del 1958 alla Meltzer Gallery della 57ª strada. Si occupa anche di scenografia collaborando con la rete televisiva della “National Broadcasting Company" con allestimenti e realizzazioni per opere liriche e di teatro di prosa.
Dal 1954 al 1957 lavora ad una serie di opere quasi monocrome (bianco con piccole aggiunte di colore) a forte texture e lieve rilievo, dove ricordi figurali si mescolano a partiture inoggettive. Nel 1958 torna in Italia e si stabilisce a Milano per potersi dedicare esclusivamente alla pittura.
Nel novembre1959 espone per la prima volta in Italia nella galleria Schneider di Roma assieme allo scultore Carmelo Cappello. Nel 1960 ritiene concluso il suo periodo informale e muta le libere pennellate in elementi plastici definiti, cominciando a sperimentare un'organizzazione razionale. Da pennellate arcuate derivano elementi semicircolari e da questi nasce il cerchio che diventa una costante di base del suo lavoro. Nel 1963 conosce Emilio Scanavino che lo invita a Calice Ligure, nell'entroterra del Savonese, località che anche per Nangeroni diventerà la sede estiva. Nel 1965 e poi nel 1973 è invitato alla IX Quadriennale di Roma, mentre è del 1972 la presenza alla Biennale di Venezia per la grafica. In questi anni opera nell'intento di sviluppare una sua grammatica di lavoro, utilizzando prevalentemente gamme di grigi su fondi bianchi e quasi abbandonando il colore. Dal 1981 esperimenta e sviluppa un cromatismo iridescente per mezzo di accostamenti di rette verticali colorate e piccole diagonali.
Nel 1986 viene invitato alla Biennale di Venezia nella sezione “Colore, aspetti della ricerca cromatica organizzata" e alla XI Quadriennale di Roma. Continua poi, negli anni Novanta, questa sua ricerca frammentando in particelle di colore le campiture, per ottenere una maggiore vibrazione luminosa. Dal 1973 al 2004 è docente presso la “Scuola Politecnica di Design" di Milano. Sue opere si trovano in collezioni pubbliche negli Stati Uniti, in Francia, in Germania, in Svizzera e in Italia.
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Mostra precedente: PaesAggio
inizio 29-09-2012 fine 09-11-2012
Foto: Adolfo Carozzi con Gian Carlo Francesconi, Mlano 2012
All’inscindibile rapporto tra natura e paesaggio del XIX Secolo si contrappongono le avanguardie dell’inizio del secolo successivo, pervase dall’intenzione di mettere da parte l’arte di far paesaggio per lo meno nel modo più tradizionale.
Il persistere comunque da parte di alcuni artisti della “voglia di paesaggio” fa si che, affiancata alla pittura più astratta, si sviluppi una rappresentazione della realtà meno oggettiva e fedele ma più tesa alla ricerca di una personale identità rappresentativa.
La possibilità di un confronto sistematico tra le diverse forme di paesaggi è stata spesso negli anni la fonte ispiratrice di mostre e rassegne, partendo dalla proposta ottico-percettiva della realtà paesaggistica attraverso le luminose interpretazioni dei Divisionisti (Morbelli), per passare attraverso il dinamismo delle immagini dei Futuristi (Boccioni), fino al limite dell’aeropittura dalle improponibili prospettive (Dottori, Prampolini), attraverso le metafisiche architetture di un immaginario e finto paesaggio (De Chirico), di un silenzioso, lontano luogo di contemplazione (Carrà), attraverso i desolati e aspri paesaggi pervasi da una drammatica tensione (Sironi) o attraverso l’ossessiva ricerca del colore e della luce interna alla pittura stessa anche a discapito della realtà (Morandi).
Se risulta difficile rintracciare un elemento di raccordo tra l’arte astratto-concreta e il paesaggio, più intuibile è, invece, nel dopoguerra la presenza in moltissimi artisti informali di un’oggettiva allusione al paesaggio, in alcuni con il nuovo rapporto dell’uomo con la natura (gli ultimi naturalisti arcangeliani), in altri con il gesto e il segno in continue strutture spaziali, in molti con la materia stessa che prendendo forma nei colori e nei rilievi si presenta con inedite prospettive, in altri ancora con l’intensità della luce in sconfinate visioni di una realtà artificiale. Dopo l’esperienza della Pop-Art e i “Paesaggi anemici” di Schifano, riferimenti molto espliciti al paesaggio si trovano in opere degli anni Ottanta anche tra gli esponenti della Transavanguardia, fino alle esperienze contemporanee di giovani artisti sostanzialmente attratti dalla pittura e dalla sfida senza limiti di un riproposto e personalizzato modo di intuire il mondo circostante.
La mostra in corso alla GlobArt Gallery pone a confronto alcune opere che, sostanzialmente diverse tra loro, offrono una carrellata delle esperienze di più di cinquanta artisti che nel corso degli anni hanno affrontato “l’arte del paesaggio”.
E’ così che, tra le altre, si possono vedere un’opera di Pietro Sassi (del 1870 circa) di chiara matrice ottocentesca, con una pittura descrittiva, attenta a luci e ad atmosfere, proposta di fianco alla recente opera di Alessandro Di Cola (2012), vincolata a quel concetto di natura come fonte inesauribile di ispirazione. Nel percorso si fronteggiano materiche opere informali degli anni Cinquanta come quelle di Enzo Brunori, di Vincenzo Frunzo, di Gian Carlo Francesconi o di Franco Francese, con pacate viste filtrate dalla inconfondibile personalità di maestri come Sironi, Morlotti e Music, si contrappongono provocanti deserti di Tano Festa e Baratella con le sognanti e romantiche rievocazioni della pittura/scrittura di Simona Weller, con gli sconfinati cieli di Antonio Carena o con le allegre cromie di Antonio Corpora. Si riconoscono le cromatiche visioni di Cassinari e Gianquinto con le singolari proposte di Gilardi e Marchelli, i monumentali paesaggi di Chia si distinguono dalle planetarie visioni cosmiche di James Brown, dalle realistiche visioni di Paulucci, Banchieri, Fissore e Cazzaniga solo per citarne alcuni.
Una rassegna da scoprire che, attraverso diverse soluzioni linguistiche ed espressive, riserva conferme e sorprese all’insegna della pittura protagonista nel secolo scorso e non solo.
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Mostra precedente: Piero Gilardi
inizio 16-06-2012 fine 13-07-2012
Non sono quadri né sculture le opere esposte alla Globart Gallery, ma sono i «tappeti natura» di Piero Gilardi. Da quel giorno (erano gli anni Sessanta), lungo il fiume l’Artista piemontese sente la necessità di ricreare quella natura assente riproducendola con forme perfette, sebbene con un materiale sintetico: il poliuretano. «Gilardi», scrive Martina Corgnati, «…cercava un materiale sintetico proprio per segnalare la radicale assenza della natura, un’assenza di fatto, sostanziale, evidente. La natura di Gilardi è diventata apparenza ma l’apparenza non coincide con la sostanza: la natura che ci resta, che abbiamo, è pret à porter e se ne può fare l’uso che si crede, arredo, addobbo, giocattolo, opera».
Nato a Torino nel 1942, Piero Gilardi si forma al Liceo Artistico e all'Accademia Albertina nella Città natale. Esordisce nel 1963 con una personale alla Galleria L'Immagine: vi presenta la serie di «Macchine per il futuro», miniature di situazioni urbane utopiche, di forte taglio ironico. Nel 1965, con una ricerca che si inserisce nell'ambito del pop-art europeo, Gilardi attua un accurato processo di denaturalizzazione con l'elaborazione e la realizzazione dei «tappeti-natura» in poliuretano espanso. Essi rappresentano, con immagini precise e intense, frammenti di paesaggio naturale di campagna, di bosco, di torrente, ricche di tutti i colori delle stagioni. Con tali opere l'artista dimostra paradossalmente il predominio anche estetico della natura artificiale sulla natura reale. Sono del 1967 le personali alla Galleria Sonnabend di Parigi, alla Galérie Aujourd'hui, da Sperone a Milano, alla Galleria Fishbach di New York. Partecipa ad alcune mostre del Gruppo dell'Arte povera; al Salone internazionale dei giovani al PAC di Milano nel 1967, Group Exhibition al Dayton Art Institute 1968, al Salon de Mai di Parigi 1968, mentre avvia un programma di autogestione di mostre e informazione come alternativa al mercato ufficiale. Nel 1969 esce dal sistema dell'arte dedicandosi all’attività sociopolitica, con la realizzazione di manifesti, pamphlets, striscioni ed agendo dal 1974 nel collettivo di animazione culturale «La Comune» di Torino. Abbandona anche la produzione artistica e l'attività espositiva. Realizza lavori di scenotecnica urbana utilizzando come materiali poliuretano espanso, polistirolo, nylon, cartone, cartapesta. Dopo il 1980 l'Artista recupera le proprie ricerche e rinnova la produzione di opere che utilizzano materiali artificiali riproponendo temi e soggetti che superano i tappeti-natura, pur rimanendo legati all'idea di base, in opere di superiore aggressività.
Lavora al progetto del Parco d’Arte Vivente della Città di Torino dal 2002, di cui è Direttore Artistico e nel quale è la natura stessa a diventare parte integrante in un progetto artistico. Presente in numerose importanti collettive internazionali, le sue opere sono anche esposte nei principali musei d’arte moderna del mondo. Di quest’anno è la mostra dedicata a Gilardi dal Museo d’Arte Contemporanea del Castello di Rivoli.
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Mostra precedente: Alessandro Di Cola
inizio 21-04-2012 fine 18-05-2012
Dopo le rassegne dedicate ad importanti protagonisti dell’arte contemporanea, ultima quella dedicata a James Brown, la Globart Gallery propone al pubblico una mostra personale di Alessandro Di Cola, giovane artista romano (classe 1981), diplomato al liceo artistico e all’Accademia di Belle Arti di Roma, vincitore della prima edizione del Premio Ars Wall 2011 patrocinato da Ars Value. Un campo d’azione, quello di Di Cola, nell’ambito della figurazione, non privo di amletici dubbi sull’immagine proposta come oggettiva visione o come rappresentazione di uno stato d’animo o come esposizione di un elaborato concetto: ecco che figure, o parti di esse, si liberano nello spazio colte dalla luce nel momento della tridimensionale sofferta e contorta rivelazione dalla materie. Le sculture si concretizzano in diversi materiali, dal bronzo all’alluminio, dalla cera alla resina, al refrattario, mentre le pitture di “paesaggio”, realizzate su iuta grezza, attraverso la personalissima cifra della cucitura propongono il legame tra l’interpretazione della realtà e l’espressione delle emozioni.
Corre su due rette parallele la ricerca di Di Cola, sospinta da quell’ansia interiore propria di chi ha qualcosa da dire, di chi ha qualcosa da raggiungere. La sua concreta e profonda preparazione, acquisita negli studi accademici, da un lato gli consente di appropriarsi della realizzazione manuale dell’arte in un momento dove spesso confusione ed insicurezza danno luogo ad ambigue proposte, mentre dall’altro l’indagine di un dramma interiore si concretizza in una interpretazione a tutto campo della natura. Un naturalismo il suo non tanto ottocentesco, ma piuttosto arcangeliano vincolato a quel concetto di natura come fonte inesauribile di ispirazione che sovente ha caratterizzato l’arte italiana contribuendo a differenziarla ed a garantirle una posizione di unicità. Un binario creativo che conduce l’Artista, attraverso quella accelerazione emotiva e quella fisica pulsante tensione, al superamento del condizionamento spazio/temporale nella costante ricerca di un equilibrio tra il vecchio e il nuovo, tra il reale e l’immaginario, tra il passato e il futuro. Di Cola ha già al suo attivo diverse partecipazioni a mostre e rassegne, tra le quali: nel 2009 Bombay Sapphire Glass Design Competition, Milano; nel 2010 Triennale Mission Art, Ambasciata d’Egitto, Roma; nel 2011 Art lover Passion in Rome, Roma; Premio Eureka, Terni; Spoleto Festival Art, Spoleto; La dolce vita, Theatre du Vesinet, Parigi; Biennale Di Firenze; nel 2012 Confronti senza Frontiere, Accademia di Romania, Roma. Ha tenuto inoltre personali a Roma Udine e Rieti.
“…Trovo che i più recenti lavori…” scrive Dante Maffia, “…abbiano raggiunto una personalità compiuta, un luogo ideale di realizzazione in cui si specchiano interamente le qualità e le istanze ideali che spingono Alessandro a traguardi che saranno importanti”. Le tecniche miste su iuta cucita sono a un tempo affascinanti e sconcertanti, urticano l’anima e nello stesso istante la portano alla curiosità, all’adesione. Si tratta di opere che dietro il figurativo presentano un movimento roteante, diversificato, impossibile da poter cogliere nel suo insieme.
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Mostra precedente: Carte dell'Arte
inizio 10-03-2012 fine 13-04-2012
Foto: Adolfo Carozzi con Pompilio Mandelli, Bologna 2003
La collettiva che si inaugurerà sabato 10 Marzo alla GlobArt Gallery ha come filo conduttore, o forse è meglio dire come supporto, la “carta”. Saranno infatti esposte numerose opere realizzate con il materiale più utilizzato nella storia dell’uomo per tramandare la propria storia, per fissare le proprie emozioni, per comunicare il proprio pensiero: la scoperta della carta, infatti, risale al primo secolo a.C. in Cina, mentre in Europa la sua diffusione avviene solo intorno al XII secolo, in Italia le prime cartiere nascono ad Amalfi e a Fabriano (1276). Utilizzata dagli scrittori, dagli storici, dai musicisti, dai poeti, dagli scultori e dai pittori, la carta, nei suoi vari spessori, semplice foglio, cartoncino o cartone, è sopravvissuta ed ancora oggi dimostra quanto sia importante nella produzione artistica. Molti esponenti, infatti, anche dell’arte contemporanea utilizzano questa superficie e si affidano a questa materia vuoi per la sua generosità assorbente, vuoi per la sua disponibilità alla manipolazione in tutte le sue connotazioni cromatiche e plastiche per realizzare opere uniche e significative della propria poetica, espressione diretta del proprio linguaggio, con le più diverse tecniche. È così che nella mostra si possono ad esempio ammirare il decollage di Mimmo Rotella, la superficie strutturata di Agostino Bonalumi, il collage di Enzo Cucchi o il pastello ad olio del 1952 di Ennio Morlotti oppure apprezzare gli acquarelli di Giorgio Griffa, di Antonio Corpora, di James Brown, di Fausto Melotti o le pitture a tempera di Sandro Chia, di Enzo Brunori, di Zoran Music o quelle ad olio di Franco Francese o di Alberto Ghinzani. Significative, inoltre, sono le opere a carboncino di Emilio Scanavino così come le strutture architettoniche di Giuseppe Uncini o le materiche composizioni di Pino Pinelli, mentre ci saranno anche tra le altre opere di Allosia, Ajmone, Chiari, Mandelli, Perilli, Sanfilippo, Vedova, Carmassi, Moreni, Lupertz, Léger, Paulucci.
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Mostra precedente: James Brown
inizio 14-01-2012 fine 25-02-2012
James Brown, nato a Los Angeles (California) nel 1951, ha studiato pittura e tecniche di stampa all’Immaculate College a Hollywood e tecnica litografica all’Ecole de Beaux Arts a Parigi e ha ricevuto il suo B.F.A. (Bachelor of Fine Arts, laurea in arte) dall’ Immaculate Heart College nel 1974. Ancora studente si trasferisce da Los Angeles a Parigi, dove vive e lavora per 7 anni. Nel 1978 realizza la sua prima esposizione museale al Gemeentemuseum, ad Arnheim in Olanda, e tiene la prima personale a Parigi.
Nel 1979 Brown si trasferisce a New York dove, nel 1983, realizza le sue prime esposizioni negli Stati Uniti presso la Nature Morte Gallery e la Tony Shafrazi Gallery, sempre di New York, dove si unisce ad altri giovani artisti emergenti come Keith Haring, Kenny Scharf, Donald Baechler e Jean–Michel Bascquiat. In questo periodo instaura un rapporto di profonda stima con Leo Castelli a New York e Lucio Amelio a Napoli.
Il catalogo ragionato della sua opera grafica è stato pubblicato a Parigi nel 2000. Anche se è conosciuto soprattutto per i suoi dipinti e stampe sperimentali, ha anche una lunga storia con altri materiali: ceramiche, tessili e libri d’artista. Nel 1995 James Brown si trasferisce a Oaxaca, in Messico, dove ha fondato con la moglie Alexandra la “Carpe Diem Press”, invitando i maggiori artisti e scrittori per creare edizioni limitate.
I suoi lavori si trovano in diverse collezioni pubbliche tra cui il Museum of Modern Art di New York, il Metropolitan Museum of Art di New York, il Whitney Museum di New York, il Musèe Pompidou di Parigi e il Museo Tamayo di Città del Messico. Dopo aver vissuto 10 anni a Oaxaca, si è trasferito a Merida, sempre in Messico, ed ora vive e lavora tra Merida e Parigi.
L’esposizione alla Globart comprende opere in sintonia con quelle presentate alla Galleria d’Arte Moderna del Capoluogo piemontese: si possono così osservare tele e carte sulle quali vagano figure biomorfe e gangli atomici sprofondati in un vacuo cosmo tra scienza e fantasia.
Alcune opere testimoniano anche, come ha avuto modo di evidenziare Anna Musini, la grande attenzione che l’Artista ripone «nella scelta del supporto prediligendo carte pregiate e tessuti, quale il lino» e nella selezione dell’impasto dei colori «come nell’esecuzione di un rituale alchemico».
Sono inoltre presenti opere comprese nel ciclo “Opera contro natura” esposte alla Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea della Repubblica di San Marino nel 2003 dove James Brown (scrive Renato Barilli) «… ha ritagliato stoffe uscite dalla fantasia sfrenata dell’Estremo Oriente, sontuosi tessuti solcati da motivi animali e vegetali, allacciati in modi sofisticati e capricciosi; o, al contrario, da stoffe più austere caratterizzate da quei motivi a quadretti che diciamo “scozzesi”».
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Mostra precedente: Emilio Scanavino
inizio 12-11-2011 fine 03-12-2011
Dal 1968 lavora prevalentemente a Calice Ligure creando attorno a se’ una piccola comunità di artisti. Partecipa a tutte le più importanti rassegne sull’Informale in Italia: L’Informale in Itala fino al 1957, Livorno 1963; Aspetti dell’Informale, Milano e Bari 1971; L’Informale in Italia, Bologna 1983; Artisti italiani fra Astratto e Informale, Milano 1988; Spazialismo, Desenzano del Garda 1989; Segno, Gesto e Materia, Milano 1990; Presenze dell’Informale in Italia, Codogno 1995; L’Informale Italiano, Parma 1997; Pittura Spaziale e Nucleare a Milano, Bergamo 1997.
Oltre all’antologica del 1973 alla Kunsthalle di Darmstadt, numerose sono state, anche dopo la sua scomparsa, le presenze in mostre collettive e rassegne come la XI Quadriennale di Roma, così come frequenti sono state le personali a lui dedicate in diverse città italiane.
Inserito in molte collezioni pubbliche e private, è anche ricordato dalla critica come uno dei protagonisti della stagione informale italiana.
«Emilio Scanavino», scrive Enrico Baj, «ha lasciato un segno, dei segni. Questi si sono incisi nella ceramica, hanno graffiato le tele dell’arte italiana del dopoguerra, hanno influito sulle nostre memorie».
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Mostra precedente: Achille Perilli
inizio 17-09-2011 fine 22-10-2011
Dopo aver frequentato il liceo classico, nel 1945 Perilli si iscrive alla Facoltà di Lettere dove frequenta le lezioni di Giuseppe Ungaretti ed è allievo di Lionello Venturi, con il quale prepara la tesi di laurea sulla pittura metafisica di De Chirico.
Nel 1947, insieme ad Accardi, Attardi, Consagra, Dorazio, Guerrini, Sanfilippo, Turcato, partecipa alla redazione del manifesto Forma 1 ed espone alla prima mostra del Gruppo alla Galleria Art Club, mentre l’anno seguente aderisce al MAC e partecipa alla prima mostra del movimento che si tiene alla Libreria/Galleria Age d’Or. In questi anni Perilli dipinge quadri ispirati a memorie di Futurismo rivisitato e ad opere di Kandinskj e Mondrian, mentre all’inizio degli anni Cinquanta realizza opere di valore lirico più vicine ad alcune tele di Magnelli. È del 1951 la partecipazione alla mostra Arte Astratta e Concreta in Italia alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, che propone una rassegna delle tendenze non figurative. Dalla metà degli anni Cinquanta l’opera di Perilli risente di stilemi informali, soprattutto nella serie di quadri che sopra una spessa opaca materia mostrano dei segni, quasi graffiti.
Nel 1956 tiene la sua prima personale alla Strozzina di Firenze mentre nel 1957 espone alla Galleria La tartaruga a Roma e l’anno seguente alla Biennale di Venezia, dove torna nel 1962 e nel 1968 con una sala personale. Nel 1963 partecipa a Palermo alle riunioni del Gruppo 63 e tiene una personale alla Galleria Bonino di New York, avviando un rinnovato colorismo. È del 1964 la personale al Kunstverein di Freiburg; intanto fonda con Giuliani, Manganelli e Novelli la rivista Grammatica mentre è del 1968 la presenza alla mostra Recent Italian Painting and sculpture al The Jewish Museum di New York. Negli anni Settanta e Ottanta gli agglomerati geometrici si colorano di suggestioni strutturaliste, mentre nei decenni sono numerose le personali come quelle al Palazzo dei Diamanti di Ferrara nel 1977, al Palazzo dei Congressi della Repubblica di San Marino nel 1982, al Paris Art Center di Parigi nel 1984, alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma nel 1989, alla Mathildenhöle di Darmstadt nel 2005 e le partecipazioni ad importanti rassegne come quella del 1983 L’Informale in Italia alla Galleria d’Arte Moderna di Bologna e quella del 2003 Pittura degli anni ’50 in Italia alla GAM di Torino.
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Mostra precedente: Rocco Borella
inizio 18-06-2011 fine 31-07-2011
“Il colore è la pittura. La pittura è il colore… il colore sono io” così affermava Rocco Borella tra le sue cromie contrapposte, declinate, sovrapposte, frutto di una continua sperimentazione sospesa tra la luminosa vibrazione di liriche emozioni e la scientifica freddezza del calcolo matematico. Solare, energica, allegra, forse estiva, la mostra accompagna il visitatore al centro della ricerca dell’artista, alla scoperta della materia pittorica, tra luci e colori spazialmente definiti da imprescindibili linee.
Borella, dopo gli studi al ginnasio e poi presso un Istituto d’arte e mestieri comincia a lavorare all’Ansaldo come tracciatore modellista, attività che lo obbliga ad applicarsi sul disegno tecnico e che risulterà utile e formativa nella produzione artistica. Contemporaneamente si iscrive all’Accademia delle Belle Arti di Genova, dove nel 1946 inizia ad insegnare, e frequenta l’ambiente artistico genovese insieme a Fieschi e Scanavino. In questi anni aderisce al gruppo genovese di Numero, la rivista e l’omonima galleria fiorentina animata da Fiamma Vigo, partecipando a numerose iniziative organizzate a Milano, Roma e Firenze. Nel 1952, nel 1965 e nel 1973 partecipa alla Quadriennale di Roma mentre nel 1956 è presente alla XXVIII Biennale di Venezia. Dopo un esordio post-cubista vicino all’espressionismo anti accademico di Corrente, Borella si indirizza verso una pittura astratto-concreta incentrata sul colore, scomposto in una struttura prismatica a tasselli. In opere come Cromemi (1960) rende la superficie cromatica strutturata in bande giustapposte in una verifica della potenzialità espressiva di ogni colore. Gli anni Sessanta sono anche caratterizzati da una sperimentazione a tutto campo sui materiali: formiche, nastri adesivi, moquette, vinilpelle, vetri smerigliati che rendono più esplicita la riflessione sulla percezione optical.
L’opera di Borella durante gli anni Settanta è incentrata su problemi ottico-percettivi sintetizzati nella realizzazione dei Guard-rail (grandi strutture in formica) del 1971, opere esposte anche alla X Quadriennale di Roma. La ricerca di tipo ottico si realizza con l’abbinamento di forme e colori, caldi e freddi alternati, che creano prospettive speculari. Durante gli anni Ottanta, abbandonato il rigore geometrico, recupera una variante lirico-decorativa con bande e forme colorate fluttuanti nello spazio: la linea si disfà e diviene macchia o traccia di colore in una libera gestualità.
Tra le più significative esposizioni si possono ricordare le personali alla Galleria Mr. Bernard di Parigi (1961), alla Armony Gallery di New York (1964) e al Teatro del Falcone di Genova (1979), le antologiche al Museo d’Arte Contemporanea di Villa Croce a Genova (1992), al Museo Civico di Sanremo (2001), al Centro Civico Buranello di Genova Sampierdarena (2007) e la partecipazione alle mostre: Gruppo di Numero. 6 pittori, Galleria Numero, Firenze (1951); Museo sperimentale d’Arte Contemporanea, Galleria d’Arte Moderna Torino (1967); Costruttivismo Internazionale al Grand Palais di Parigi (1973); Astrattismo in Italia nella raccolta Cernuschi Ghiringhelli, Castello di Rivoli (1985); Arte genovese e ligure dalle collezioni del Museo d’Arte Contemporanea di Villa Croce, Museo d’Arte Contemporanea di Villa Croce, Genova (2001).
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Mostra precedente: Mario Ceroli
inizio 07-05-2011 fine 11-06-2011
Formatosi a Roma all’Istituto d’Arte con insegnanti quali Fazzini, Leoncillo e Colla, dedicatosi in primo luogo alla ceramica, Ceroli ha avuto un esordio precoce e felice vincendo nel 1958 il premio per la Giovane Scultura alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma. In questi anni affina la sua arte lavorando la ceramica presso lo studio del suo insegnante Leoncillo. Successivamente si dedica al legno per porre l’accento sull’elemento primario, sul senso emergente delle cose reali, sul valore simbolico dell’opera, sul gesto fondamentale dell’artista. Ha così destituito del suo valore il materiale aulico e nobile della scultura, investendo di una nuova e forte capacità di rappresentazione il materiale naturale e povero. Con le sue forme ritagliate nel legno grezzo, le sue citazioni da icone dell’arte, le sue ironiche mimesi, Ceroli ha reso fisica l'idea, l'ha tradotta in gesto e in materia e nello stesso tempo ha occupato lo spazio in una stupefacente proliferazione di forme con l’intento di disegnare la realtà e l’ambiente umano in ogni sua declinazione, ma nel farlo li trascende sublimandoli.
Sviluppa parallelamente curiosità per i vari materiali naturali quali terra e ghiaccio, vetro e carta.
Nel 1966 si è affermato sulla scena internazionale alla Biennale di Venezia vincendo il Premio Gollin per Cassa sistina. Nello stesso anno si trasferisce a New York dove rimane fino al 1968.
Ha lavorato intensamente anche per allestimenti scenografici di grande importanza per il teatro di prosa e musicale come nel 1968 per il Riccardo III di Shakespeare al Teatro Stabile di Torino.
Oltre a significative antologiche è presente in importanti mostre e rassegne tra le quali: le Quadriennali di Roma del 1965, 1985, 1992, 1999, le Biennali di Venezia del 1968, 1976, 1982, 1984, 1988, 1993.
Il frutto della sua arte è visibile anche grazie alla realizzazione di importanti opere pubbliche come Il Cavallo della RAI di Saxa Rubra, La Casa del Nettuno a Bologna, la Chiesa e il Teatro a Porto Rotondo, L’uomo di Leonardo da Vinci all’Aeroporto di Fiumicino, la Chiesa di Tor Bella Monaca a Roma, la Chiesa di Napoli al Centro Direzionale, L’Albero della Vita per il Sestriere.
Autore in primo luogo del proprio ambiente di vita e di lavoro, Ceroli ha raccolto in uno spazio di 3000 metri quadrati i suoi lavori in una specie di museo in continuo mutamento.
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Mostra precedente: Omar Galliani
inizio 26-02-2011 fine 09-04-2011
L’Artista, dopo gli studi all’Accademia di Belle Arti di Bologna inizia la sua attività artistica verso la fine degli anni Settanta nell’ambito del Gruppo degli Anacronisti sostenuto da Massimo Calvesi, con un lavoro di ricerca incentrato su un tema iconografico ripreso dall’arte del passato ed ispirato ad una cultura umanistica tipicamente italiana nel tentativo di collegare l’antico al contemporaneo. Nel 1977 tiene la sua prima personale a Bologna mentre nel 1980 espone a Roma e a Ferrara nella mostra curata da Flavio Caroli Magico Primario.
Intanto Galliani sperimenta diverse tecniche dalla pittura alle installazioni, fino a incentrare sempre più il suo lavoro e la sua ricerca sul disegno, utilizzando il carboncino e le matita su tavola, talvolta inserendo testi poetici e letterari. Negli anni Ottanta viene invitato a tre edizioni della Biennale di Venezia, in quella del 1984 con una sala personale alla sezione Arte allo Specchio, alla Quadriennale di Roma e nello stesso periodo espone alla Biennale di San Paolo del Brasile, alla Biennale di Parigi, nei Musei d’Arte Moderna di Tokyo, Kyoto, Nagasaki, Hiroshima, alla Hayward Gallery di Londra, alla Galleria d’Arte Moderna di Roma e in quelle di Francoforte e Berlino.
Galliani usa il disegno come un’immagine del mondo e lavora molto con le influenze che gli provengono da culture extraeuropee, come quella indiana e orientale, raccolte nelle sue numerose peregrinazioni dal Messico all’Africa, alla Cina. Erede della tradizione italiana del disegno di maestri del Rinascimento come Leonardo da Vinci, Raffaello e Correggio, l’Artista usa una tecnica particolare: matita o pastello o inchiostro su tavola di pioppo. La tavola viene preparata sfregando della carta vetrata sulla superficie naturale del legno: appaiono così le trame del legno che sembra quasi respirare al passaggio della matita.
L’attività espositiva diventa nel corso degli anni sempre più intensa, partecipa a una serie di mostre in gallerie e musei di livello internazionale tra le quali: nel 1985 alla Arnold Herstad Gallery di New York, nel 1990 allo Scottsdale Center for the Arts dell’Arizona e alla Marion Locks Gallery di Philadelphia, nel 1991 al Palazzo delle Stelline a Milano, nel 1994 al Museum of Modern Art of Budapest, nel 1998 alla New York University, nel 2000 alla Galleria d’Arte Contemporanea di Palàcio Foz a Lisbona. Nel 2003 è invitato alla Iª Biennale di Pechino, dove presenta il trittico Nuove anatomie che viene esposto nel China National Museum of Fine Art e premiato come migliore opera. Il riconoscimento anticipa una serie di personali negli anni a seguire allestite nei musei d’arte contemporanea di Shangai, Pechino, Hong Kong, Tokyo, Kyoto, Buenos Aires, San Paolo, Città del Messico, Miami, Los Angeles, Guadalajara, Rabat. Nel 2008 espone un nucleo di opere dal titolo Notturno al Gabinetto dei Disegni degli Uffizi di Firenze che ripercorrono il suo percorso artistico degli ultimi anni.
Nelle opere in mostra la matita che rende i contorni e si sofferma in sfumature, propone i soggetti femminili e maschili come espressioni sensuali, spirituali e di forza, dense di significati che rimandano al mito così come alla realtà quotidiana.
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Mostra precedente: Paolo Baratella
inizio 11-12-2010 fine 22-01-2011
Paolo Baratella nasce a Bologna nel 1935 da genitori ferraresi. Trascorre l'infanzia a Bologna poi, dopo la guerra nel 1959, si trasferisce a Milano dove ancora oggi vive e lavora, dedicandosi a tematiche con forti connotazioni socio-politiche. Già dagli inizi imposta la sua ricerca verso una nuova figurazione fondata sul recupero in chiave polemica dei linguaggi di massa, cinema, televisione, manifesti pubblicitari, illustrazioni, con un evidente richiamo alla Pop Art ma anche con alcune colte citazioni pittoriche e letterarie. Le immagini, selezionate da Baratella per la loro forte carica suggestiva-comunicativa, vengono rielaborate con complessi processi pittorici mantenendo spesso, come dato fondamentale, il problema della violenza nel mondo, della povertà e della solitudine. Inizia la sua attività espositiva nei primi anni Sessanta e dopo le personali alla Galleria Pater di Milano (1961), alla Molton Gallery di Londra (1962), alla Galerie des Jeunes di Parigi (1963), alla Galleria del Cavallino di Venezia (1964), tiene mostre in diverse città italiane ed estere tra le quali: Parigi, Bonn, Berlino, Barcellona, Basilea, Helsinki, Bruxelles, Mosca, New York, San Francisco, Toronto, Montreal. Nel 1976 gli viene assegnata dal Senato di Berlino la borsa D.A.A.D. che darà luogo a una serie di mostre in varie città tedesche. Numerose sono anche le presenze in rassegne in Italia come alla mostra Salvare Venezia alla Biennale di Venezia nel 1972, alla Biennale di Milano nel 1974 e 1994, alla Quadriennale di Roma nel 1986 e 1999, alla Triennale di Milano nel 1992 o come le antologiche allestite alle Galleria Civiche di Arte Moderna e Contemporanea a Ferrara e alla Fondazione Mudima a Milano nel 1995, a Palazzo Reale a Milano nel 1998 e a Palazzo Guasco ad Alessandria nel 2003. Baratella, titolare per dieci anni di Cattedra all'Accademia di Brera a Milano, sviluppa la sua arte realizzando opere riunite sotto estesi cicli pittorici dai titoli significativi quali: Cronaca di un mal di testa (1968), Come se mi alzassi e prendessi coscienza (1971), Toccata e fuga da/per il potere (1977), Bach Hotel (1980), Il 1980 & l'Officina ferrarese (1983), Oh specchio delle mie brame! (1985), Orfeo/Euridice (1987), La parte mancante (1989/90), Fuga dalla scuola di Atene (1992), Achille e la tartaruga (1999), Nemici (2000/2003).
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Mostra precedente: Sandro Chia
inizio 09-10-2010 fine 05-11-2010
Dopo l'Istituto d'Arte si diploma all'Accademia di Belle Arti di Firenze nel 1969. Viaggia per un anno in Europa, India e Turchia stabilendosi infine a Roma, dove tiene nel 1971 la sua prima personale. Fino alla metà degli anni Settanta opera nell'ambito dell'Arte Concettuale realizzando anche performance e accompagnando i suoi lavori con scritti, poesie e prose, mentre nella seconda metà del decennio si accosta progressivamente alla figurazione. Negli anni Ottanta diventa, insieme a Clemente, Cucchi, De Maria e Paladino, uno dei protagonisti del gruppo della Transavanguardia promossa e sostenuta da Achille Bonito Oliva, partecipando a importanti mostre in Italia e all'estero (Kunsthalle a Basilea, Biennale di Venezia, Royal Academy a Londra). Nel 1981 tiene una personale a New York, dove in seguito si stabilisce alternando la presenza tra gli Stati Uniti e l'Italia ed ottiene una borsa di studio dalla città di Monchengladbach. A questo periodo risalgono le sue prime scene mitologiche, caratterizzate da figure imponenti di michelangiolesca memoria. Dal 1982 si dedica anche alla scultura realizzando opere monumentali per numerose città (Bielefeld, Parigi) mentre nel 1984 insegna pittura alla School of Visual Arts di New York. Nel corso degli anni è stato invitato ad esporre alle Biennali di Parigi e San Paolo e più volte (l'ultima nel 2009) alla Biennale di Venezia. Nelle tecniche miste in mostra, la presenza della figura umana, inserita per un tempo indefinito in un contesto più teatrale che naturale, è disegnata da contorni quasi approssimativi, di un colore che delimita e allo stesso tempo riempie una realtà unicamente immaginata. Nei monotipi, invece, inseriti nella barocca cornice, le figure, rifacendosi alla classicità dell'arte italiana (la monumentalità di Sironi, la possanza di Carrà, la silenziosità di De Chirico) si presentano libere dai condizionamenti del contorno, in bilico tra la disponibilità al racconto e la necessità del silenzio. Tra gli importanti musei che gli hanno dedicato mostre personali si ricordano: Stedelijk Museum of Amsterdam (1983), Metropolitan Museum di New York (1984), Nationalgalerie di Berlino (1984, 1992), Museo d'Arte Moderna di Parigi (1984); Musei di Dusseldorf (1984), Anversa (1989), Città del Messico (1989); Palazzo Medici Riccardi di Firenze (1991); Musei di Karlsruhe (1992), Palm Springs (1993), Villa Medici a Roma (1995); Palazzo Reale a Milano (1997); MOMA di Boca Raton, Florida (1997); Galleria Civica di Siena (1997); Galleria Civica di Trento (2000); Museo d'Arte della Città di Ravenna (2000); Museo Archeologico Nazionale di Firenze e Palazzo Pitti (2002); Duomo di S. Agostino a Pietrasanta (2005); Boca Raton Museum of Art in Florida, USA (2007); Gemeentemuseum dell'Aia, Paesi Bassi (2008).
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Mostra precedente: Ugo Nespolo
inizio 11-05-2010 fine 12-06-2010
Ugo Nespolo (Mosso/Bi, 1941) si é diplomato all’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino e si è laureato in Lettere Moderne. I suoi esordi nel panorama artistico italiano risalgono agli anni Sessanta, alla Pop Art, ai futuri concettuali e poveristi. Negli anni Settanta Nespolo si appropria di un secondo mezzo di espressione, il cinema: in particolare quello sperimentale, d’artista. Ai suoi film hanno dedicato ampie rassegne il Centre Georges Pompidou di Parigi, il Philadelphia Museum of Modern Art, la Filmoteka Polska di Varsavia, la Galleria Civica d’Arte Moderna di Ferrara, il Museo Nazionale del Cinema di Torino. Gli anni Ottanta costituiscono il cuore del periodo americano mentre sono del ’90 le prestigiose collaborazioni artistiche come la campagna pubblicitaria per la Campari e le scenografie ed i costumi del Don Chisciotte per il Teatro dell’Opera di Roma. È del ‘95 la personale Pictura si instalatu di Bucarest a cura del Ministero alla Cultura romeno mentre l’anno seguente assume la direzione artistica della Richard-Ginori. Nel '98 inizia la collaborazione con la storica vetreria d'arte Barovier & Toso di Murano per la quale Nespolo crea una serie di opere da esporre a Palazzo Ducale di Venezia. 2001: torna al cinema con FILM/A/TO, prodotto dall'Associazione Museo Nazionale del Cinema di Torino. Nel 2002 viene nominato consulente e coordinatore delle comunicazioni artistiche nelle stazioni della costruenda Metropolitana di Torino. Nel 2005 vi è un ritorno al cinema con Dentro e Fuori/Un ritratto di Angelo Pezzana, prodotto dal Museo Nazionale del Cinema di Torino, illustra le Mille e una Notte in edizione pregiata e realizza un’ideazione artistica di rilievo internazionale con Progetto Italiana, filmato prodotto da Cinecittà. Sono del 2006 alcune immagini video e vetrofanie ideate per la Metropolitana di Torino, due mostre personali in occasione dei Giochi Olimpici Invernali di Torino e le illustrazioni, con un filmato, di Piú veloce dell'aquila una favola sulla campionessa mondiale di sci Stefania Belmondo. Per il 53° Festival Puccini 2007 gli viene affidata l’ideazione e la realizzazione di scenografie e costumi della Madama Butterfly nonché di un filmato artistico sull’opera. Il Comune di Siena gli ha conferito l’incarico di disegnare il Drappellone per il Palio di Agosto 2007. Ugo Nespolo vive e lavora a Torino.
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Mostra precedente: Sergio Zen
inizio 10-04-2010 fine 08-05-2010
Sergio Zen (Valdagno/Vi, 1936) inizia a dipingere nel 1957 da autodidatta, iscrivendosi poi alla Libera Scuola d’Arti Figurative Marzotto a Valdagno. Partecipa alla Triveneta di Bolzano nel 1961 dove consegue il primo premio. Dopo un breve inizio figurativo approda nei primi anni Sessanta ad un astrattismo lirico. Fonda nel 1960 con i pittori Corrà e Disconzi la Galleria Impronta a Valdagno dove espongono diversi artisti quali De Luigi, Fontana, Music, Licata, Santomaso e Vedova e dove tiene la sua prima personale. Nel 1968 vince il Primo Premio Città di Trissino mentre l’anno seguente partecipa alla XVIII Biennale Triveneta di Padova. Durante gli anni Settanta la sua pittura si dilata a creare una vibrazione rotatoria, impressa sulla tela mediante la continua apertura e chiusura di spazi cromatici, volti all’esplorazione dell’infinito. È un periodo intenso con l’allestimento di numerose personali a Valdagno, Milano, Palermo, Padova, Torino, Foggia e la partecipazione a rassegne tra cui: al Premio Joan Mirò di Barcellona 1970, l’esposizione della Grafica Contemporanea al Museo Puskin di Mosca 1971, al Grand Prix d’Arts Plastique alla Gallerie Crozier a Lione 1973, alla I Quadriennale Europea a Roma 1974, alla mostra Pittori vicentini alla Basilica Palladiana a Vicenza 1978. Realizza un’opera particolare Presenza in collina (cm. 160 X 735), che viene esposta nella personale su invito del Comune di Granada alla Caja Provincial nel 1979. Viene girato in questo periodo il documentario che riprende tutta l’operazione della formazione di una sua opera e che viene proiettato nelle scuole. All’inizio degli anni Ottanta Zen fa largo uso del collage utilizzando una materia velare, intenzionalmente aggrinzita ma è sempre il colore il vero soggetto del fare artistico di Zen che in questi anni è ulteriormente acceso. È del 1982 la personale alla Galleria Dello Scudo di Verona, del 1983 quella alla Galleria Ariele a Vicenza mentre nel 1987 viene presentata un’antologica a Villa Valle Marzotto a Valdagno. Per festeggiare i quaranta anni di attività tiene nel 1997 la personale Colore come Immagine nella Galleria Studio Marco Zen Arte Contemporanea di Valdagno con testo di Hsiao Chin. Nel 2001 su invito di Giorgio Di Genova partecipa alla mostra Generazioni Anni Trenta al Museo d’Arte delle Generazioni Italiane del ‘900 G. Bargellini, Pieve di Cento (Bo). In occasione della mostra Carte dipinte 1963/1970 alla Galleria Sante Moretto a Monticello Conte Otto (Vi) nel 1998, Luca Baldin osserva: “La parentela di queste carte di Sergio Zen alla fonte d’ispirazione che certamente affonda nel cuore del fenomeno ‘informale’ del dopoguerra... appare assai stretta”.
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Mostra precedente: Franco Costalonga
inizio 27-02-2010 fine 03-04-2010
Franco Costalonga (Venezia, 1933) inizia la propria formazione come autodidatta, frequentando solo in seguito, come privatista, la locale Scuola d'Arte, dove segue gli insegnamenti di Remigio Butera. Dopo aver esordito come incisore e acquafortista, conseguendo il primo premio alla 50° Collettiva della Fondazione Bevilacqua La Masa di Venezia, si avvicina alla pittura, elaborando una serie di dipinti caratterizzati dalla libera e aerea espressione di eleganti grafismi di mediata matrice liciniana e wolsiana. Nella seconda metà degli anni sessanta, dopo essere entrato a far parte del Gruppo Dialettica delle Tendenze, Costalonga verrà quindi elaborando delle originali superfici tensionate, generanti forme tridimensionali. Tali nuovi procedimenti lo porteranno in seguito ad avvicinarsi a Bruno Munari, presidente del gruppo "Sette-Veneto", approfondendo così i suoi interessi per le nuove esperienze cinetico-visuali. Per tali nuove creazioni, nel 1967 Costalonga viene premiato alla 55ª Collettiva della Fondazione Bevilacqua La Masa, mentre l'anno successivo una sua opera entrerà a far parte della Collezione Guggenheim. Operatore visivo attivo anche nell'ambito dell' arredamento e del design, Costalonga ha ottenuto in tali settori numerosi riconoscimenti. Dopo aver sperimentato tutte le possibili combinazioni degli specchi sferici, con i quali partecipò all’edizione della Biennale del 1970, nel 1973 l’artista veneziano concepì un nuovo elemento: un piccolo cilindretto la cui sommità veniva tagliata a 45° e colorata. Dapprima come unità singole e in seguito assemblati in moduli da sessantaquattro, questi semplici elementi diedero vita a geometriche rappresentazioni, le cui forme mutavano d’intensità cromatica in corrispondenza dell’interagire del fruitore con l’opera e dell’azione della luce sulla superficie cromatica. Gli “Oggetti quadro sui gradienti di luminosità” ampliarono il campo applicativo della ricerca cromatica potendo essi disporre di una pressoché illimitata programmazione delle loro combinazioni. Le successive espansioni (altrimenti dette “Destrutturazioni modulari”), opponevano invece al sistema componibile e regolare dei moduli un impiego frammentario e periferico del cilindretto che rispondeva alla libertà espressiva dell’artista. Contestualmente alla sperimentazione cine-visuale, negli anni settanta Franco Costalonga elaborò, partendo sempre da un singolo elemento modulare, prima le “Strutture elicoidali” e in seguito le “Strutture sui movimenti di simmetria”, concepite come un insieme di componenti plastici flessibili o rigidi, combinati in una trama geometrica dall’indirizzo ascensionale. Numerose, nel frattempo, le sue partecipazioni a mostre nazionali e internazionali tra le quali: la XI Quadriennale di Roma nel 1966, la rassegna "Grands et Jeunes d'aujourd'hui" al Grand Palais nel 1972 a Parigi, nel 1974 a Basilea e nel 1976 a Caracas. In seguito, a partire dal 1978, entra a far parte del Centro Verifica 8+l nell'ambito del quale, nel corso degli anni ottanta, verrà approfondendo le proprie ricerche caratterizzate dall'impiego di materiale plastico reticolare per generare movimenti e variazioni di simmetria. Nel 1986 è invitato nella sezione Arte-Scienza-Colore della XLII Biennale di Venezia. Nel 1990, dopo un lungo periodo di inattività, Franco Rossi, alla cui galleria l’artista era già stato legato in passato, fornì lo spunto per una nuova realizzazione che comportò l’ausilio di piccoli specchi circolari appesi con un filo di nailon all’interno di strutture geometriche colorate. Muovendosi casualmente, per effetto dell’aria, gli “Specchi mobili” riflettono la luce e il colore dei lati interni alla struttura. Sempre nell’ambito del movimento, ma questa volta sul versante della partecipazione attiva del fruitore con l’opera, nascono le “Tensoforme”, composte da un lamierino traforato e da un tessuto elastico, su cui è possibile intervenire modificando la superficie attraverso un magnete posto sul retro del quadro. Nei primi anni novanta Costalonga riconsidera nuovamente il pvc metalizzato adattandolo, in sottili lamine, sulla superficie uniformemente righettata di un supporto rigido. Crea in questo modo i “Pseudorilievi” dove la luce (possibilmente radente) ha un ruolo fondamentale: a contatto con le lamine a specchio produce una zona di riflesso luminoso e una zona d’ombra la quale circoscrive un ingannevole rilievo. Anche per i “Riflex” venne utilizzato, seppure in piccoli frammenti, il materiale lamellare in pvc; disponendolo sul supporto con un criterio di addensamento e rarefazione si ottennero soluzioni di rifrazione cromatico-luminosa di grande efficacia. Con le “Strutturazioni” e le “Destrutturazioni” Costalonga ritorna ad occuparsi, a distanza di molti anni, della sola superficie dipinta: interviene con l’aerografo per riprodurre delle strutture geometriche che in una seconda fase destruttura. Gli esiti più recenti della ricerca sperimentale, oltre ai “Mokubi2”, che sono le ultimissime varianti tridimensionali degli “Oggetti quadro”, sono le “Consequenziali estreme” e le “Curve modulari (Mokurve)”. Le prime, realizzate con materiale termoplastico metalizzato in altovuoto, conseguono dalla pulizia degli stampi dei cilindretti assumendo forme casuali; le seconde si ottengono invece dall’insieme concatenabile e modificabile di elementi modulari curvi. Ulteriore evoluzione è stata infine apportata ai “Mokubi” con il termine “Mokudue s.” Si tratta di elementi modulari posti su un reticolo triangolare che assemblati rendono visivamente l’apparenza di un cubo in assonometria. Le superfici dipinte delle singole facce creano un’ulteriore vibrazione che movimenta ulteriormente l’immagine complessiva. Gli ultimi anni sono stati contrassegnati da importanti mostre, al Castello di Lubiana, alla Fondazione Matalon di Milano, alla Biblioteca Nazionale di Cosenza. Dagli anni duemila è presente inoltre in rassegne sul cinetismo internazionale. Nel 2002 l’oggetto cromocinetico a sfera acquistato da Peggy Guggenheim è stato esposto alla mostra “Themes and Variations, Arte del dopoguerra delle collezioni Guggenheim”, Venezia, e nel 2007 a Verona nella mostra “Peggy Guggenheim, un amore per la scultura”.
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Mostra precedente: Fausto De Nisco
inizio 16-01-2010 fine 20-02-2010
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Mostra precedente: Simona Weller
inizio 05-12-2009 fine 09-01-2010
Simona Weller è nata a Roma nel 1940. Dopo gli studi classici si diploma all’Accademia di Belle Arti con Ferrazzi e Mafai. Dal 1960 al 1964 viaggia e lavora come borsista U.N.E.S.C.O. in Thailandia, Egitto e Spagna. Negli anni successivi la sua pittura risente di un surrealismo di natura, dovuto alla frequentazione dei musei e a un lungo ritiro nella campagna umbra. Nel 1970, tornata a Roma, diventa compagna di Cesare Vivaldi con cui frequenta le personalità più interessanti del mondo letterario e artistico. Comincia ad insegnare come assistente di Giulio Turcato e nel 1973 esordisce alla Quadriennale di Roma con grandi tele di pittura-scrittura. In questi anni è segnalata al Premio Bolaffi da Giuliano Briganti, da Marcello Venturoli e da Cesare Vivaldi tra i giovani artisti più interessanti del momento. Nel 1976 pubblica il primo saggio sulle artiste italiane del XX secolo: Il Complesso di Michelangelo. Da questo momento la sua ricerca pittorica sarà sempre affiancata da quella saggistica e letteraria, pubblicando alcuni romanzi storici sulla vita di pittrici celebri. Nel 1978 è invitata alla Biennale di Venezia e al F.I.A.C. di Parigi. Nel 1980 tiene la sua prima antologica alla Pinacoteca di Macerata e un corso speciale all’Accademia di Belle Arti di Roma. Nello stesso anno inizia a collaborare col mensile Noi Donne, dove avrà una sua rubrica fino al 1996. Dal 1980 lavora regolarmente la ceramica presso la fabbrica L’Antica di Deruta. Partecipando al progetto culturale Deruta 2000 e alla mostra scambio Algeri-Deruta, negli ultimi trent’anni ha elaborato nuove forme e nuovi decori. Alcuni cicli delle sue opere pittoriche hanno come tema “la lettera”. Il più recente è Lettere di una pittrice italiana a Vincent van Gogh che le è valso nel 2003 l’invito per una mostra itinerante in Olanda. Nel 2005 due musei liguri hanno celebrato i quarant’anni di attività di Simona Weller con la doppia mostra antologica Verba Picta. L’8 marzo 2006, su segnalazione del premio nobel Rita Levi Montalcini, il Presidente Ciampi le ha conferito l’onorificenza di commendatore per meriti culturali. Nel 2009 vince il concorso per la Medaglia del V anno di Pontificato di Benedetto XVI, indetto dalla Città del Vaticano. Il 21 novembre 2009 è stata invitata tra i 500 maggiori artisti del mondo alla celebrazione del decennale della Lettera agli artisti di Giovanni Paolo II nella Cappella Sistina.
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Mostra precedente: Mirco Marchelli
inizio 24-10-2009 fine 28-11-2009
Dopo la maturità tecnica si diploma in tromba al Conservatorio Antonio Vivaldi di Alessandria, nel 1983, svolgendo poi attività concertistica sia nell’ambito della musica classica che in quella jazz. Significativa è la collaborazione con il cantautore Paolo Conte nelle tournèe concertistiche dal 1988 al 1991. Da anni è impegnato come ideatore, promotore ed organizzatore di eventi culturali nel territorio ovadese come ad esempio il Festival “In Contemporanea”, manifestazione che ha lo scopo di rappresentare sotto tutti gli aspetti artistici la contemporaneità. Artista poliedrico, Mirco Marchelli da sempre dà voce alla sua creatività esprimendola in musica e poesia ma soprattutto attraverso la pittura. Marco Meneguzzo definisce i suoi lavori “pure opere di pittura ‘travestite’da oggetto, da concentrato di storie che, per la natura stessa della forma di questi lavori appaiono come storie personali, interiori, se non proprio intime, di una fanciullezza da giocattolo di legno.” I suoi lavori vengono esposti in mostre personali e collettive dal 1994: prima a Gavi, Alessandria, Genova, poi nel 1997 a Verona con le mostre “La casa di Mirco” e “Pause popolari” presso la galleria Studio La Città. La sua prima mostra all’estero è nel 1998 presso la Galleria Sfeir Semler di Amburgo, seguita nel 2000 dalla collettiva “Carte Blanche à Melene de Franchis” presso la galleria Lucine Durand Le Gaillard di Parigi. L’anno successivo presenta a Regensburg la personale “C’era una volta il re” alla Baumler e nel 2005 il suo lavoro è esposto a Barcellona dalla galleria Miguel Alzueta. La galleria Studio La Città di Verona presenta nel 2003 la mostra “Acqua calda acqua fredda”. Nel 2004 partecipa alla Biennale di Arte Sacra presso il Museo di Stauros a Isola del Gran Sasso (Teramo) e la Galleria Il Traghetto presenta a Venezia la mostra “Quindici diciotto”. L’anno successivo Cardelli e Fontana allestisce “Cime, segni e specchi d’acqua” a Sarzana. Nel 2006 Marchelli è presente con Via Crucis al Monastero di Villafranca Piemonte a Torino e alla Galleria San Fedele di Milano nella mostra collettiva “Sentire con gli occhi”. Nel 2007 la sede milanese di Spirale Arte allestisce “Trombe clarini e genis”, a cura di Marco Meneguzzo, mentre per la nuova galleria Eventinove di Torino Luca Beatrice presenta un’altra personale, intitolata “Ma c’è un ma”.E’ a cavallo fra il 2008 e il 2009 l’allestimento della mostra “Amata o tic tac” presso la Galleria Cardelli e Fontana di Sarzana e curata da Marisa Vescovo. La stessa curatrice inserisce alcune opere nella mostra “900. Cento anni di creatività in Piemonte”. Marchelli vive e lavora ad Ovada (AL).
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Mostra precedente: Domenico Grenci
inizio 12-09-2009 fine 10-10-2009
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Mostra precedente: Antonio De Luca
inizio 11-07-2009 fine 08-08-2009
Antonio De Luca nasce il 18 agosto 1977 a Pompei. La sua propensione per la pittura si manifesta prestissimo, già negli anni dell'infanzia, quando dichiara ai genitori che da grande farà il pittore. La sua famiglia lascia la Campania quando Antonio non ha neppure un anno e si trasferisce a Vercelli per motivi di lavoro. La perdita del padre a soli 8 anni è un duro colpo, lo segna nel profondo e aumenta la sua inclinazione sia alla ricerca esteriore che all'introspezione. A 16 anni si trasferisce a Valenza dove frequenta il terzo anno dell'Istituto d'Arte Benvenuto Cellini.
È il momento della svolta, dell'incontro decisivo con due dei suoi insegnanti che ne intuiscono il talento e le grandi potenzialità. Claudio Pasero, docente di storia dell'arte, gli permetterà di realizzare la sua prima personale, nel 1995, ad Alessandria. Anche il professor Carlo Bello, al quale mostra i suoi primi dipinti dalla vena grottesca e dal segno giovane, lo sprona a continuare a impegnarsi per esercitare il talento e l'originalità. Nel 1998 si trasferisce a Milano, dove si iscrive all'Accademia delle Belle Arti di Brera e sceglie l'indirizzo Scenografia. Una decisione dettata dal pragmatismo, che si infrange però contro la forza della vocazione e la passione per la pittura. Diserta le lezioni e trascorre quell'anno milanese a dipingere. Frequenta le mostre dei grandi e si riempie gli occhi di Picasso, Schiele, Chagall, Wharol, Basquiat... Intanto le esposizioni si sovrappongono, in Italia e all'estero. A Parigi, nel 2003, espone da Christie's Education e quell'occasione segna un altro incontro importante, quello con Orio Vergani, il gallerista con il quale inizia una collaborazione caratterizzata dalla stima e dall'amicizia. Da ricordare, tra le altre, le esposizioni presso la Galleriastudiolegale di Roma e Caserta e la Galleria En Plein Air di Pinerolo. Una voce a lui dedicata compare nell'Enciclopedia dell'Arte Zanichelli.
Hanno scritto di lui: Tiziana Conti, Roberto Borghi, Maria Luisa Caffarelli, Rino Tacchella e Simone Frangi, giovane critico con il quale stringe un rapporto di stima e collaborazione che lo accompagnerà attraverso nuove occasioni espositive.
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Mostra precedente: Giorgio Griffa
inizio 16-05-2009 fine 30-06-2009
Giorgio Griffa nasce nel 1936 a Torino e nel 1958 si laurea in giurisprudenza ed inizia l'attività di avvocato. Nel 1960 frequenta la scuola privata di Filippo Scroppo sviluppando peraltro una esperienza strettamente figurativa. Procede poi ad una progressiva spoliazione degli elementi rappresentativi sino a giungere al ciclo dei lavori intitolati Quasi dipinto. In quel ciclo si precisa la scelta del non finito che diverrà un carattere costante del suo lavoro.
Espone nel 1968 alla Galleria Martano di Torino. Nel 1969 inizia la collaborazione con la Galleria Sperone e nel 1970 espone nelle gallerie di Ileana Sonnabend a New York e Parigi.
E' di quegli anni la vicinanza agli artisti dell'Arte Povera.
Per circa due anni, fra il 1973 ed il 1975, esegue quasi esclusivamente linee orizzontali, composte da una linea continua che si ripete ovvero da segni di pennello ordinati l'uno accanto all'altro in sequenze orizzontali.
Negli anni successivi iniziano a convivere sulla tela sequenze di segni differenti che definisce Connessioni o Contaminazioni, modifica fisiologica del precedente ciclo dei Segni Primari. Sono gli anni in cui si avverte come la riflessione di tipo minimalista apra le porte ad una nuova considerazione dell'imponente carico di memoria di pittura e scultura anche se Griffa non è un minimalista.
Il trittico intitolato Riflessione costituisce il primo passo di un altro ciclo, che troverà negli anni 2000 il titolo di Alter Ego. Gli anni '80 vedono un ampio sviluppo del ciclo delle Contaminazioni. Ai segni spesso si affiancano campiture di colore più o meno ampie, un racconto indeterminato fra le memorie della pittura.
All'inizio degli anni '90 sopraggiunge il ciclo Tre Linee con Arabesco in cui ogni lavoro, tela, disegno, acquerello, incisione, contiene appunto, fra gli altri segni, tre linee ed un arabesco.
Nel seguito degli anni '90 inizia un altro ciclo che si avvale dei numeri. E' il ciclo delle Numerazioni. Qui i numeri indicano su ciascuna tela l'ordine in cui sono posati i vari segni e colori che la compongono. Si deve notare che fra un ciclo e l'altro non vi è alcuna ipotesi di sviluppo o progresso. I cicli che emergono negli anni 2000 confermano questo aspetto. Infatti la loro origine risale a vent'anni prima, alla fine degli anni '70.
Il ciclo Sezione Aurea, che guarda a quel numero irrazionale senza fine che ne caratterizza l'aspetto matematico, si avvale delle trasparenze della tela tarlatana che già erano del grande lavoro Dioniso del 1980, esposto alla Biennale di Venezia di quell'anno.
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Mostra precedente: Umberto Mariani
inizio 14-03-2009 fine 14-05-2009
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Mostra precedente: Enzo Brunori
inizio 08-11-2008 fine 31-12-2008
Enzo Brunori nasce il 13 luglio 1924 a Perugia, dove si forma all’Istituto d’Arte con Domenico Caputi, che lo indirizza verso la Scuola Romana, ed Enzo Rossi, che lo influenza profondamente, indicandogli il magistero di Cézanne. Dal 1944 è allievo di Gerardo Dottori nell’Accademia Pietro Vannucci. Nell’immediato dopoguerra le lezioni di Lionello Venturi nell’Università per Stranieri gli fanno amare la pittura francese moderna. Nel 1946 ha la sua prima mostra personale, a Perugia, alla Galleria Nuova, presentato da Caputi. Nel 1947 partecipa al I Premio Perugia mentre nel 1948-9 la sua ricerca evolve in un postcubismo che si confronta con echi neoplastici. Dal 1950 è stabilmente a Roma, a Villa Massimo, raggiunto nel 1952 dall’amata compagna, la pittrice Vittoria Lippi; è vicino a Rossi e a Leoncillo e dal comune lavoro sul medesimo soggetto nasce il tema "Sedia, cappotto, cappello". Tiene la prima personale romana alla Galleria Il Pincio, nel 1951, mentre nel 1954 espone con Rossi alla Galleria Schneider dove tornerà nel 1955 accanto a Dorazio, Nativi, Perilli, Romiti e Sanfilippo. In quegli anni, nella serie delle "Mimose", la natura e il colore divengono protagonisti e la sua pittura perviene a una solida configurazione personale. Stimato da Lionello Venturi, Nello Ponente, Palma Bucarelli, la sua collocazione è confermata dalla partecipazione a varie esposizioni mentre "Giovani pittori", dopo Roma, Parigi e Bruxelles, lo impone all’attenzione anche internazionale. Sebbene abbia rifiutato di entrare nel gruppo degli “Otto pittori italiani”, promosso da Venturi, il suo linguaggio è rubricato nelle proposizioni “astratto-concrete”. Nel 1955-56 espone alla VII Quadriennale, a Roma, ma la consacrazione critica ed espositiva avviene nel 1956: Maurizio Calvesi ne specifica la posizione in occasione della personale alla Galleria La Medusa, a Roma; Nello Ponente lo presenta alla Galleria Il Milione, a Milano; Enrico Crispolti ne fornisce una prima importante collocazione e sistemazione storico-critica; infine partecipa alla XXVIII Biennale veneziana. È il momento in cui definisce “l’orientamento del proprio destino pittorico”. Frattanto, aveva esposto a New York in Painting in "Post-War Italy", primo capitolo di una mai conclusa avventura americana. Nel 1958 lo stesso Venturi lo presenta nella personale alla Medusa, introducendo, nel medesimo anno, anche la monografia di Maurizio Calvesi nelle Edizioni Mediterranee. Il pittore perugino Dante Filippucci gli dedica un saggio, mentre una nuova intonazione marina e notturna, documentando un non estrinseco ascolto dell’esperienza “informale”, ne segna tuttavia la divergente irreversibile scelta di campo. Nel 1959 ha uno spazio personale nella VIII Quadriennale, a Roma, presentato in catalogo da Franco Russoli. Il 1960 è un anno a suo modo cruciale: dissensi profondi lo portano a rifiutare l’invito alla Biennale di Venezia e il suo percorso si snoda verso l’insegnamento. Direttore dell’Istituto d’Arte di Cortina d’Ampezzo, passerà a Civitavecchia nel 1965. Nel corso del decennio si intensifica il dialogo con il collezionismo internazionale. Nuove esperienze provengono anche dal mondo della critica, come dimostrano i saggi di Giovanni Carandente, le presentazioni di Marcello Venturoli e di Marco Valsecchi, dove di lui si occupa anche Ponente. Sono anni nei quali pone un dialogante controcanto alla poetica segnico-gestuale, materica e spesso polimaterica, dell’Informale, di cui Brunori, convinto assertore del medium pittorico, non condivide la radicale immediatezza. Nel 1963 due acuti lettori di questa fase sono Giovanni Michelucci e, nella monografia pubblica dal Milione, Elizabeth Mann Borgese. Con quest’ultima e Vittoria, Enzo si reca in India, traendone una fascinazione indelebile, recepita nella tavolozza e nell’iconografia di molti suoi quadri. Nei primi Sessanta l’autenticità esistenziale sempre a monte della sua creatività lo spinge a una meditazione religiosa e cosmogonica. Nel 1967 è nominato Cosegretario Nazionale della Federazione Artisti della CGIL, mentre politicamente elabora, con il Partito Socialista, una proposta di riforma della Biennale di Venezia. I tempi sono maturi per una sistemazione storica degli anni che sono anche quelli delle sue prime vicende di ricerca: è questo il senso di Artisti Astratto-concreti 1950-55, ordinata nel 1970 ad Avezzano da Ponente. Nella medesima direzione va la monografia di Vivaldi del 1972, pubblicata dalla Società Editrice Michelangelo, a Roma. Dallo stesso anno è Docente di Pittura all’Accademia di Belle Arti de L’Aquila. Intanto, diversifica la propria produzione artistica impegnandosi anche nella grafica e in sperimentazioni ceramiche. Trasferitosi a metà decennio all’Accademia di Roma, dal 1974 passa lunghi periodi nella casa del Villaggio dei Pescatori, a Fregene, vicino alla foce dell’Arrone, dove nascono le molte opere dedicate al mare, al fiume e al rifrangersi delle onde. Di lì a poco saranno invece i gabbiani, con il loro volo libero a occupare come stormi palpitanti, le tele brunoriane dagli ultimi Settanta agli Ottanta. È l’ennesima evoluzione, all’interno di coordinate mai sillentite, del suo afflato lirico evocativo, intensamente coloristico. Medaglia d’oro del Presidente della Repubblica (1978), è anche Benemerito della Scuola, della Cultura e dell’Arte. Prima della fine del decennio escono una monografia di Gatt e un volume di versi dedicatigli dal poeta Gianfranco Pernaiachi. In più occasioni espositive è presentato dal teorico dell’astrattismo storico Carlo Belli. L’immersione nella natura, mai abbandonata, trova nuove ragioni e forme nel ciclo L’albero di Aachen, negli Ottanta. Vi riassume, nelle trasparenze liquide del colore come negli addensamenti improvvisi, quattro aspetti della natura, quattro stagioni della vita, quattro condizioni esistenziali. La passione inesausta per la pittura lo porta ad ulteriori approfondimenti di effetti di luce e cromatici quasi acquorei nei mesi in cui Maurizio Fagiolo dell’Arco ordina l’ultima antologia a Canelli (1992). A Monticino, dove trascorre l’estate presso l’amico gallerista Attilio Zammarchi, concepisce un ennesimo capolavoro in cui colore e luce osmoticamente si risolvono l’uno nell’altra. Si spegne a Roma il 13 maggio 1993, esaudito l’ultimo desiderio: sposare Vittoria.
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Mostra precedente: Antonio Carena
inizio 24-05-2008 fine 19-07-2008
“Venne a trovarmi il poeta cinese Duo-duo e mi capitò di domandargli come gli apparisse il cielo. Il suo soave sorriso non variò, subito mi volle ammaestrare con una mossa secca e tagliente delle mani, accennando a quanto ci attorniava e dicendo: « Qui sulla terra tutto è squadrato. Ma se sollevo lo sguardo al cielo!» Tracciò un gesto circolare: «Tutto si allarga all’infinito, circonda, forma una sfera. Nel cuore della sfera c’è il quadrato della terra»”.
Elèmire Zolla
Quadri che vanno saputi anche leggere e testi che vanno saputi anche guardare.
Il linguaggio è un’attività, un processo incessante di creazione e la creatività del linguaggio è creatività significativa, analoga all’arte. Già Benedetto Croce affermava che il linguaggio è un fenomeno estetico e il termine chiave, fondamentale nella sua concezione, è “espressione”. Secondo il filosofo napoletano qualsiasi genere di espressione è, alla radice, artistica e dunque anche i modi di esprimersi, in forma scritta e in quella dialogica interpersonale e pubblica del pittore Antonio Carena presentano un punto di appiglio (in certi casi il primo varco semantico di conoscenza) per una lettura della sua opera. Opera intesa in senso unitario, linguaggio e pittura interagiscono in un sistema fluido.
Per chi lo conosce sa che il pittore è un appassionato della parola, un conversatore affabile nonchè inventore di un lessico originale, al pari dei suoi “cieli”, produzione pittorica più nota. I neologismi, i motteggi e il frasario con cui si esprime possono costituire un parallelo espressivo e creativo al fare pittorico? Per rispondere è opportuno iniziare la riflessione dall’ipotesi che se se si adotta un’attitudine metodologica in cui il concetto di opera è usato in senso tendenzialmente semiologico, i “cieli” che si sono andati lentamente formando nel corso della sua vicenda pittorica possono essere considerati come un codice comunicativo. Un codice che ha avuto tra i prodromi proprio un’analisi sulle eredità lasciate dalle ricerche artistiche sorte a cavallo tra ‘800 e ‘900 interessate a costituire in sistema i propri mezzi espressivi e di attribuire loro una autonomia specifica. Il codice “cielo” elaborato da Carena è un sistema autonomo regolato da segni, unità minime di significazione - lo spazio, la luce, il colore - che non sono dipendenti da un referente esterno. Il cielo careniano è cielo pittorico non reale, ed è astrazione all’ennesima potenza che ha abbandonato l’oggetto, oggettivizzandolo in pittura.
Per riassumere sinteticamente il percorso di ricerca, la prima fase “astrattista” dell’artista, è un’indagine sull’autonomia del quadro, quale dispositivo indipendente dalla funzione di rappresentazione, ma in seguito il razionalismo idealistico del procedimento astratto si è gradualmente sciolto in una grafia pulsionale, epidermica e magmatica. “Le prime prove informali di Carena, che sono anche tra le prime in Italia, appartengono agli anni 1950-’51, legate ad un profondo disagio esistenziale”, secondo Mirella Bandini, colei che ha condotto una esauriente ricognizione storico-critica del percorso dell’artista dal 1950 al 1994. Il vissuto autobiografico registrato con meticoloso controllo degli strumenti pittorici, lo ha spinto verso esiti che sono all’apice di un rigore espressivo e formale, esaurendo di fatto il linguaggio informale ed evitando la deriva manierista. Maggiormente interessato alle componenti fenomenologiche, sulla scorta delle esperienze francesi dei nouveaux réalistes e delle prime avvisaglie pop, giunge a prelevare dall’ambiente circostante, nel contesto sociale e culturale di riferimento, frammenti oggettuali indicativi di una società serializzata e industrializzata: le lamiere e le pellicole specchianti, sulle quali non è tardato che avvenisse un fatto nuovamente pertinente alla visione e strutturalmente interno alla pittura: i fenomeni di rifrazione e di specularità. Di cosa? Di un accadimento riflesso, durante una “situazione” di “attesa”, nella forma mentis dell’artista.
L’aneddoto dice che egli era in una piazza torinese in un momento d’ozio a causa del ritardo di un importante critico romano, e in quell’attesa si accorgeva del cielo, non quello atmosferico ma del suo doppio riflesso sulle superfici levigate e metalliche delle carrozzerie delle auto. Da quel momento il “cielo” è divenuto protagonista assoluto della sua pittura - a partire dalla metà degli anni sessanta – e lo caratterizza a tal punto da essere egli l’indiscusso “pittore del cielo”. Con questa assodata conoscenza del suo stile che si dà secondo un trompe-l’oeil rovesciato (“…una tecnica di inganno che non finge più di essere la realtà nascondendosi come pittura o scultura, ma svelandosi appunto come illusione costruita dentro il linguaggio”), noi abbiamo interiorizzato un codice e sentiamo come suoni familiari e interpretiamo come segni del suo linguaggio i cieli che vediamo nei soffitti delle sale d’attesa degli aeroporti, negli schermi dei bancomat o negli uffici di qualche autorevole international company, anche se non gli appartengono effettivamente. Quando vediamo un cielo, sia esso realizzato come soluzione di arredamento o come rivestimento murario esterno, il confronto immediato che stabiliamo non è con il cielo vero, quello che realmente esiste al di là da una finestra o sopra le nostre teste, ma con i cieli vaporizzati con l’aerografo da Carena. Per questo penso ad una lettura più estesa dei cieli intesi non solo come soluzione pittorica, riversata in innumerevoli varianti, ma come linguaggio che informa noi lettori dei suoi dipinti. In special modo gli ultimi, realizzati nel 2008, quadri che vanno saputi anche leggere e testi che vanno saputi anche guardare. I cieli sono la cifra distintiva del suo lavoro, aerei e illusori, volatili come le parole, ma anche fisicamente tangibili e formulati come frasari entro superfici: tele, tavole, lamiere, pellicole, compensati, muri e pelle.
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Mostra precedente: Collezione 20x20
inizio 08-03-2008 fine 03-05-2008
Foto: Adolfo Carozzi con Raimondo Rimondi, Bologna 2007
L’idea ispiratrice di questa singolare rassegna è apparentemente semplice: commissionare un piccolo quadro, misura venti per venti, ad un esponente della pittura italiana del XX secolo.
Questo quadro “quadrato” dovrebbe rappresentare un tassello di un fantastico mosaico il cui disegno finale sarà la sorpresa e al tempo stesso l’evento della mostra stessa.
Ho scritto che l’idea è apparentemente semplice perché in realtà la simbologia del quadrato e quella del numero quattro vengono spesso associate. Così che anche la scelta della misura, venti per venti, ci ripropone cinque volte il numero quattro. La simbologia del quadrato e quella del numero quattro si trovano spesso abbinate per esempio dagli Ebrei che facevano del Tetragramma il nome impronunciabile della divinità (Jhwh); o dai Pitagorici che facevano del Tetraktys la base della propria dottrina.
Non vorrei, però, addentrarmi in dissertazioni alchemico-ermetiche che porterebbero il mio discorso a discostarsi dall’arte e dalla pittura, che sono invece l’idea portante che ispira questa rassegna. Diciamo invece che il quadrato, quale rappresentazione di stabilità, associato al numero quattro, quale numero di perfezione, offre una solida base all’espressione dei singoli artisti.
Inoltre, poiché ogni artista sarà rappresentato da tre opere, non posso non ricordare che se Platone considerava il quattro collegato alla materializzazione delle idee, vedeva nel numero tre il simbolo dell’idea stessa… Coincidenze?
Resta il fatto che tutte queste simbologie si adattino in modo stranamente pertinente alle coordinate di questa rassegna. Forse perché a monte c’è l’operazione di dipingere, collegata direttamente alla creazione, alla magia della creazione. Forse perché l’opera di piccole dimensioni aspira ad una sintesi suprema.
Il piccolo formato, infatti, non può rinunciare ad uno scavo profondo nella ricerca di ogni artista, il quale deve riuscire a concentrare in poco spazio il tempo di anni e anni di perfezionamento e maturazione.
Né si può ignorare che il quadrato, secondo una ricchissima tradizione, evoca con i suoi stretti limiti, il senso del segreto e del potere occulto. Quadrati magici, dunque, in cui segreto e potere sono parte stessa dell’Idea che l’artista abitualmente esplora, con la speranza di riuscire ad estrarne la propria pietra filosofale.
Dopo aver indagato la forma di questa Rassegna, vorrei soffermarmi sul suo contenuto. Devo però fare una premessa. Parlare di astrattismo nel terzo millennio, è come osservare con un binocolo rovesciato i movimenti d’avanguardia che hanno attraversato tutto il ventesimo secolo.
Esattamente cento anni fa, Piet Mondrian, Vasilij Kandinskij, Kazimir Malevic e Giacomo Balla scoprivano che si poteva vedere la realtà da più punti di vista. Solo attraverso il colore, solo attraverso i contorni delle cose, solo attraverso la geometria di un mondo visto dall’alto, o solo espandendo la pittura oltre il perimetro del quadro. Prospettiva ribaltata, scissione dell’atomo, velocità, sequenze fotografiche, avvento del cinema, cambiarono la percezione che gli artisti potevano avere del mondo circostante.
Dal momento che la committenza tradizionale si era sostituita all’urgenza espressiva e individuale dell’artista che, come uno scienziato, diventa un ricercatore puro, la domanda è stata: come rappresentare il nostro tempo?
Osservando oggi le tendenze che, a corrente alternata, attraversano il XX secolo, si può notare quanto il concetto di astrazione non faccia che progredire e maturare in parallelo a tendenze provocatorie e comunque ancora collegate alle rivoluzioni artistiche del XIX secolo. Penso alla Metafisica, al Surrealismo e all’Espressionismo. Movimenti che sono stati lo sviluppo naturale di alcune tendenze messe in moto da grandi personalità della fine dell’Ottocento.
Il concetto di astrazione, invece, che troverà nella seconda metà del secolo il terreno più adatto per fiorire e affermarsi, aveva già scritto la mappa dei propri itinerari all’inizio del Novecento.
Gran parte degli artisti invitati a questa rassegna rappresentano il meglio della ricerca non figurativa dell’arte italiana del secondo dopoguerra. Molti di loro potrebbero testimoniare il significato dell’avventura dell’astrattismo negli anni del Neorealismo. Il significato profondo della propria ricerca di libertà espressiva che si opponeva alle angherie intellettuali dei regimi neo-totalitari.
Già, perché dopo le proibizioni inflitte all’arte contemporanea dal regime dei Soviet prima e dal nazismo poi, la condanna dell’arte d’avanguardia bollata come “degenerata” è diventata definitiva e il suo disprezzo luogo comune.
Io stesso ho conosciuto artisti come Pietro Consagra, Antonio Corpora, Toti Scialoja, fino a Simona Weller che ha avuto la fortuna di essere amica di Giulio Turcato, Piero Dorazio, Giuseppe Capogrossi e Alberto Burri. Tutte persone che hanno combattuto con i pregiudizi del pubblico e della critica. Pregiudizi che oggi ci appaiono ottusi, spesso dettati da superficialità ed opportunismo politico.
Comunque, per capire meglio il clima in cui si è formata l’arte italiana contemporanea, occorre fare un passo indietro.
Alla fine del 1946 i giovani artisti Consagra, Turcato, Carla Accardi, Antonio Sanfilippo e altri si recarono a Parigi per due settimane nel quadro di uno scambio culturale organizzato dalla Gioventù Comunista. Quei giovani ebbero così modo di entrare in contatto con la moderna arte europea dopo anni di nazionalismo e chiusura delle frontiere all’informazione culturale. Videro da vicino le opere di Cèzanne e di Picasso, di Matisse e di Brancusi, di Klee e di Kandinskij. Furono accolti negli studi di Magnelli, Arp, Hartung, Giacometti e Leger, tornarono “gonfi di gioia”, perché a Parigi era tutto esaltante, sconvolgente. Amavano l’idea di far parte del Partito, che per loro rappresentava la speranza del futuro, ma al tempo stesso erano orgogliosi di essere italiani ed europei. Intuivano soprattutto che proprio loro erano destinati a diventare i provocatori della libertà di pensiero all’interno del Partito.
Non facevano i conti però con la reazione che avrebbe avuto Guttuso, che si considerava (ed era) il polo di attrazione della giovane arte italiana e come tale mal sopportava la defezione in massa dei suoi giovani colleghi siciliani (solo Turcato era veneto). Bisogna ricordare che la direzione del Partito con cui Guttuso si identificava puntava sull’arte popolare, sul significato e la tradizione della cultura popolare e persino sull’orientamento da dare alla poesia, alla critica e alla letteratura. Insomma, all’arte in generale.
Artisti come Dorazio, Guerrini, Perilli e persino Severini, che portava la propria testimonianza del Futurismo, frequentavano lo studio di Guttuso in via Margutta 48. Ma quando al “maestro di chiara fama” lo Stato assegnò uno studio a Villa Massimo, si creò una frattura definitiva. Cominciarono allora le polemiche e gli attacchi su Rinascita. Cominciò così la diffidenza e l’emarginazione per tutti quegli artisti che pensavano alla propria arte in una prospettiva europea, ovvero libera dagli schemi del realismo socialista.
Tra gli episodi grotteschi che accadevano in quegli anni c’era persino l’obbligo, anzi la necessità, di difendere la linea della politica russa nella guerra fredda. Gli artisti si chiedevano come avrebbero potuto difendere una Russia che sosteneva un’arte accademica e ricattatoria. E sempre più spesso si chiedevano per chi e contro chi stessero lottando. I nemici dell’astrattismo, i nemici della loro arte erano “anche” democristiani e fascisti. Perché i compagni comunisti non dimostravano certo un esempio di apertura a favore della libera espressività… anzi, prevalevano “il settarismo e la prepotenza”, come ha avuto modo di raccontare Consagra nella sua biografia.
Per fortuna dell’arte italiana la Biennale di Venezia, con inviti ai più validi rappresentanti dell’astrattismo internazionale, riuscì ad alimentare il credito di questa tendenza. Anche perché tutti gli artisti più significativi del mondo occidentale, pur appartenendo all’area politica della sinistra non volevano aderire al Realismo Socialista.
Insomma, gli artisti astratti sono sempre stati invisi a tutte le tendenze politiche, forse perché questo tipo di arte non si presta alla propaganda e quindi non è politicizzabile.
È naturale chiedersi cosa sia cambiato oggi.
Tutto e niente. Da un lato molti maestri dell’astrattismo internazionale sono entrati come esponenti di “alta epoca” nell’antiquariato dell’arte contemporanea. Considerati valori indiscussi con quotazioni adeguate a questi valori. Dall’altro lato, però, l’avvento delle nuove leve della cosiddetta arte estrema (in cui si sta affermando la visione di un neo-figurativo che rimastica manieristicamente l’avanguardia degli anni Sessanta) rischia di sfilacciare la trama di una tendenza storica e di far marcire sul ramo il frutto maturo di un periodo significativo. Paradossalmente la perdita di credibilità della Sinistra ha rischiato di delegittimare le istanze di una corrente che affondava le proprie segrete motivazioni anche nella ribellione ai dictat di un’Autorità superiore.
Ritengo dunque che non permettere agli artisti di perdere la memoria storica del proprio percorso, non solo creativo, ma sociale, dovrebbe rientrare nelle aspirazioni della giovane critica d’arte.
Gli artisti selezionati dalla GlobArt Gallery per questa mostra hanno sicuramente alle spalle una lunga storia di impegno politico, ma anche di indipendenza spirituale. Non a caso appartengono, in gran parte, alle generazioni tra gli anni venti e trenta. Per fortuna non sono più i tempi in cui le divisioni fra tendenze e generazioni erano drastiche, tanto che per neo-figurazione si intendeva una sorta di anacronistica visione accademica, condita da contaminazioni ideologiche. Anche se, altrettanto fondamentalista è stata la pittura informale che inorridiva di fronte al termine “impressionismo” ed era terrorizzata dall’ipotesi del paesaggio.
Questa mostra dunque, nel suo “piccolo”, ha voluto dare a Cesare quel che era di Cesare… Così, pur mantenendo una sua connotazione d’avanguardia, spazia da un astrattismo geometrico, ad uno di segno, fino ad un informale materico, per avvicinarsi anche ad una sorta di onirismo solo apparentemente figurativo (come potrebbe considerarsi tale un artista come Paul Klee).
Si può ben dire che questa rassegna sia stata guidata nelle scelte da una sorta di radar involontario attraverso il quale è riuscita a comporre una visione quanto mai articolata ed esaustiva dell’arte italiana di oggi. Forse non è un caso che ci riesca proprio attraverso la scelta a monte del piccolo formato, capace di dare intensità e sintesi all’opera di ogni artista. Anche perché tutti gli artisti invitati dalla GlobArt Gallery formano una sorta di tessuto connettivo su cui affonda le proprie radici il multiforme panorama dell’arte contemporanea.
Come dire che l’arte italiana non è “anche” questa, ma soprattutto questa. Ovvero un’immane sforzo creativo che si avvale dell’operosità di tanti artisti legati alla nostra grande tradizione a cui sono orgogliosi di appartenere e di rappresentarne la continuità.
Mi riferisco ad artisti a me già noti e stimati da tempo, quali Luigi Boille con i suoi puzzle vermicolanti di colore e di segno che oggi raggiungono una rarefatta sintesi, o Mario Nanni che rimedita lo spazio con l’uso di un materiale già da tempo indagato, la mappa. Oppure Nicola Carrino con le sue sculture geometriche evocative di “spazi altri”, o Renata Boero con il suo sperimentalismo inquieto, o Riccardo Guarneri che, con la sua pittura evanescente, ma strutturata dal segno e dal colore, indaga i segreti dell’astrazione, o Turi Simeti che con rigore e raffinatezza spinge alle conclusioni più estreme le proprie “estroflessioni”, o Renato Spagnoli che ha scelto la lettera A e la sua ombra per indagare le infinite possibilità di interagire nello spazio, o Enrico Sirello che con i suoi moduli ripercorre la lunga strada della pittura di segno, che ha in Sergio Fermariello un valido innovatore dei “valori selvaggi” dell’Art Brut.
Pittura, quest’ultima, condotta ad una svolta originalissima dalla pittura-scrittura di Simona Weller o anche dalle apparizioni segniche che arricchiscono i fondi incandescenti di Mario Raciti. Segno e scrittura, poi, si amalgamano reinventando lo spazio nella ricerca di Mino Ceretti e Pirro Cuniberti, che si servono di un cromatismo essenziale a differenza delle scritture criptiche e monocrome di Germano Sartelli, a cui si potrebbe accumunare il lirismo fantastico di Linn Espinosa.
Sempre in questo gruppo voglio ricordare le armoniose scansioni dello spazio di Paolo Schiavocampo, la gestualità legata a una libera interpretazione del colore di Enrico Mulazzani e Fausto de Nisco, nonché le suggestive ricerche sulla bidimensionalità dello scultore e pittore bolognese, recentemente scomparso, Raimondo Rimondi. Infine il lavoro di Giorgio Griffa, uno dei più noti esponenti della cosiddetta “pittura-pittura” degli anni Settanta, di cui Mirco Marchelli rievoca gli stilemi.
Tra gli artisti più ispirati ad una pittura materica mi piace ricordare Alberto Ghinzani e Lidia Puglioli, esponente dell’informale fin dal 1954, ma anche le efflorescenze di Paolo Masi, il tachisme di Alfonso Frasnedi, l’informale puro di Giona David Parra, le scansioni dello spazio di Renato Barisani, le forme di matrice junghiana di Sergio Zen, fino alla spazio animato secondo i canoni più classici dell’informale di Raimondo Sirotti.
Tra gli astratti più legati alla geometria, oltre ovviamente ai grandi maestri Achille Perilli, con i suoi solidi geometrici di matrice kleiana, ed Eugenio Carmi, noto per la sua ricerca sul colore e la struttura della forma, mi sembra notevole la presenza di Lorenzo Piemonti, che ricorda al meglio certi Reggiani, nonché Enrico Della Torre, che tende a servirsi della geometria con “intuizioni surreali, contaminate dall’astrazione”.
In questa mostra si evidenzia anche un filone piuttosto originale che trova le sue radici nei motivi del dinamismo futurista. Come non ricordare, a questo proposito la ricerca cromo-dinamica di Guido Baldessari o l’incalzare delle geometrie di Luca Padroni capaci di dare il senso della velocità futurista?
Nell’area invece che ammicca ad una visione più figurativa indimenticabili le nuvole di Antonio Carena, le apparizioni oniriche di Attilio Forgioli o il realismo esistenziale di Giancarlo Cazzaniga, le lettere magrittiane di Umberto Mariani, le scomposizioni giocose di Ugo Nespolo che rielabora genialmente l’eredità di Depero, gli esseri stilizzati di Klaus Prior o le maschere-volto di Giacomo Soffiantino, fino alla vena fantastica e ironica dei personaggi di Ciro de Falco. Sempre a questo gruppo appartiene anche l’espressionismo “contenuto e tagliente” di Gian Carozzi, recentemente scomparso, è stato tra i firmatari del primo manifesto spazialista, oltre gli pseudo paesaggi “fantastico-verosimili” di Luigi Fersini, i monocromi dal suggestivo effetto di dagherrotipo di Andrea Aquilanti, nonché le visioni dall’alto di campi e di mare di Daniele Fissore, fino alle desolate solitudini di Vittorio Mascalchi, che fanno da contraltare alle liriche composizioni di Franco Polizzi.
Questa rassegna ci dimostra un fatto importante: come spesso accade nella corsa affannosa verso l’attualizzazione, anche nell’arte, si corre oggi il rischio di archiviare troppo in fretta e troppo prematuramente la ricerca di molti artisti, che è ancora in fase di approfondimento. Ricerca che in alcuni casi sembra dare proprio oggi i risultati più convincenti.
Pensare questa mostra, dunque, al di là dell’intrigante quadrato magico che la ispira, è stata a mio parere necessario per mostrarci la vitalità di una vicenda artistica e dei suoi protagonisti.
Forse potrebbe essere anche di monito per il pubblico più attento e scaltrito. Quello che sa riconoscere la qualità dell’opera e sa ricordare quanto il fattore tempo sia sempre stato dalla parte degli artisti più autentici.
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Mostra precedente: Turi Simeti
inizio 01-12-2007 fine 31-01-2008
Turi Simeti nasce ad Alcamo, in provincia di Trapani, nel 1929. Dopo studi universitari rimasti incompiuti, nel 1958 si trasferisce a Roma, dove, occupandosi di una libreria, avvia i primi contatti con il mondo dell’arte, avendo occasione di conoscere, fra l’altro, Alberto Burri e di frequentarne lo studio. Da queste sollecitazioni deriva, all’inizio degli anni Sessanta, una sua prima produzione di opere polimateriche. Soggiorna in questi anni, anche per lunghi periodi, a Londra, Parigi e Basilea. In sostanziale sintonia con coeve esperienze in ambito internazionale motivate da una comune volontà di azzeramento della tradizione e dei codici precostituiti dell’espressione artistica, il suo linguaggio, attraverso l’acquisizione della monocromia e del rilievo come uniche forme compositive, si definisce e si struttura principalmente intorno a un elemento geometrico, l’ellisse, che diventerà la cifra del suo lavoro artistico.
Ancor più importante per l’acquisizione dell’opera di Simeti a un panorama specifico risulta il suo inserimento nel progetto “Zero Avantgarde”, che ha la sua prima uscita nel 1965 nello studio di Lucio Fontana a Milano. In quegli stessi anni si trasferisce da Roma a Milano. Tra il 1966 e il 1969, invitato come Artist in Residence dalla Fairleigh Dickinson University, si trattiene per lunghi periodi a New York, dove allestisce uno studio e realizza numerose opere, all’interno della poetica rigorosa che è andato definendo.
Nel 1971, nel segno di una adesione al clima di contestazione dell’opera, realizza una performance nella galleria La Bertesca di Genova con la “Distruzione di un aliante”, di cui conserva i resti in bidoni blu firmati e numerati. Ciò non comporta però una trasformazione radicale del suo lavoro sulla superficie e sui volumi, anche se nei suoi lavori verrà manifestandosi un ulteriore senso di rarefazione delle presenze aggettanti, che dimostra un avvicinamento alle poetiche del minimalismo. Nei primi anni Settanta realizza altre personali, confermando l’adesione del suo lavoro alle ricerche in ambito costruttivo.
La sua opera va configurandosi come una ricerca consequenziale, nel passaggio da opere singole a dittici e polittici con un elemento aggettante che viene spesso decentrato, e quindi con la sperimentazione di formati e sagome differenti, raggiungendo effetti di maggiore complessità spaziale nel corso degli anni Ottanta. Nella seconda metà degli anni Settanta la sua attività espositiva lo porta in diverse città europee e nel 1980 viene allestita una sua personale presso la Pinacoteca Comunale di Macerata. Dallo stesso anno inizia a lavorare in un suo nuovo studio a Rio de Janeiro, città in cui trascorre lunghi periodi invernali e dove negli anni successivi prende a esporre, ricevendo importanti consensi.
Nel 1981, dopo aver collocato nel 1980 una scultura a Gibellina, espone in Sicilia nella Galleria Pagano di Bagheria, presso l’Opera Universitaria di Palermo e nell’Atelier di Rosario Bruno a Sciacca. Nel 1982 tiene una personale nello Studio Grossetti di Milano. In seguito, esclusa qualche sporadica presenza in mostre italiane, le sue opere vengono accolte in numerosi spazi privati all’estero. L’accostamento a opere di Castellani, Bonalumi e altri mette in risalto come l’estroflessione praticata da Simeti assuma valori contigui ma anche antitetici rispetto alle analoghe tecniche compositivo-costruttive applicate da Castellani e Bonalumi.
Nel 1991, presentato in catalogo da Elena Pontiggia, espone un’ampia selezione di lavori al Museo Civico di Gibellina. La sua opera va configurandosi ora attraverso la moltiplicazione e la dispersione degli elementi volumetrici-aggettanti ovali nella superficie, con una colorazione più intensa e diversificata, recuperando valori di relazione architettonica sempre più evidenti.
Nel 1998 tiene una personale alla Galerie Kain di Basilea, seguita l’anno successivo da altre esposizioni a Biberach, Ladenburg e Mannhein e dalla partecipazione all’esposizione “Arte in Italia negli anni 70” presso La Salerniana di Erice.
Altre recenti personali dell’artista sono realizzate presso lo Studio d’Arte Harry Zellweger di Basilea e nella Galleria Uwe Sacksofsky ad Heidelberg, entrambe del 2000; nel 2001 Civica Galleria d’Arte moderna di Gallarat; nel 2002 Fondazione Mudima, Milano, Galleria Bergamo, Bergamo, Galleria Maier, Kitzbühel, Galerie Wack, Kaiserslautern, Galleria Giraldi, Livorno;nel 2004 ad una importante mostra alla Galleria Poleschi di Milano, presentato in catalogo da Luca Beatrice; nel 2005 e 2006 due mostre a Lugano.
Attualmente Simeti vive e lavora a Milano.
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Mostra precedente: Eugenio Carmi
inizio 13-10-2007 fine 24-11-2007
Eugenio Carmi nasce a Genova nel 1920. Studia a Torino sotto la guida di Felice Casorati. La lunga esperienza di grafico maturata negli anni 50, è fondamentale per la sua ricerca pittorica, impostata su una rigorosa struttura geometrica e su una attenta analisi percettiva dei valori cromatici. E' stato responsabile dell'immagine dell'Italsider dal 1958 al 1965. Ha partecipato alla Biennale di Venezia nel 1966. Nel 1967 presenta opere elettroniche alla mostra "Superlund" curata da Pierre Restany a Lund in Svezia. Nel 1968 Presenta il "Carm-o-matic" alla mostra "Cybernertic Serendipity" all' Institute of Contemporary Art di Londra. Per il Servizio Programmi Sperimentali della RAI realizza nel 1973 un programma completamente astratto di 25 minuti e nello stesso anno tiene seminari di arte visiva al Rhode Island Institute of Design di Providence negli Stati Uniti. Negli anni ’70 ha insegnato all'Accademia di Macerata e all'Accademia di Ravenna. Ha illustrato tre favole di Umberto Eco (“La bomba e il generale”, “I tra cosmonauti”, “Gli gnomi di Gnù”), pubblicate in Italia da Bompiani e in molti altri Paesi del mondo. Il Ministero francese dell'Educazione Nazionale le ha selezionate per le biblioteche e le scuole di Francia.
La più importante mostra antologica della sua opera è stata allestita dal Comune di Milano nel 1990, seguita dalla prestigiosa rassegna dedicatagli dalla città di Budapest nelle sale di Palazzo Reale nel 1992. Nel 1991 espone al Museo Italo Americano di San Francisco. Nel 1996 esce il volume "CARMI" di Umberto Eco e Duncan Macmillan, presentato alla Triennale di Milano, un compendio di tutta la sua storia (Ed. L'Agrifoglio, Milano). Nell'ottobre 1997 ha luogo una mostra personale al Museo Municipale di Lussemburgo su invito del Sindaco, in occasione del semestre lussemburghese di Presidenza dell'Unione Europea. Nel 1998 mostre ad Amburgo e Firenze. Nel 1999, oltre a varie mostre, è invitato alla XIII Quadriennale d'Arte di Roma "Proiezioni 2000". Dicembre: mostra a Los Angeles. Nel maggio 2000 mostra personale a Roma nei saloni della Camera dei Deputati, Palazzo Montecitorio, su invito del Presidente Luciano Violante. Settembre: mostra antologica al Museo Diocesano di Barcellona, con il patrocinio del Ministero degli Affari Esteri, del Parlamento Europeo e del Parlamento della Catalogna.
Edito dall'Electa, esce il volume "Eugenio Carmi" di Luciano Caramel e Umberto Eco, in italiano e spagnolo. Gennaio 2001: è nominato Accademico di San Luca.
Settembre-ottobre 2001: mostra antologica a Praga nella Cappella di San Carlo Borromeo, con il patrocinio del Ministero degli Affari Esteri e dell'Ambasciata italiana.
Settembre-ottobre 2002: mostra a New York alla New York University, con il patrocinio del Consolato Generale d’Italia. Dicembre 2003: mostra all’ Istituto Italiano di Cultura di Parigi, acquarelli, collages e vetri. Dicembre 2003: vince il Primo Premio Nazionale F.Ferrazzi a Sabaudia. Aprile 2004: esce presso Fabbri Editori il libro “Tre racconti”, riedizione in volume unico delle favole illustrate da Eugenio Carmi sui testi di Umberto Eco. Aprile 2004: gli viene assegnato il Premio internazionale di pittura, scultura e arte elettronica Guglielmo Marconi, Università di Bologna. Giugno 2004: all’Istituto Italiano di Cultura di Copenaghen, mostra delle tavole originali delle illustrazioni dei “Tre Racconti”. Ottobre 2004: mostra Galleria Atrium Arte contemporanea, Lecce. Maggio-Giugno 2005: mostra Città di Noto, Palazzo Trigona-Canicarao. Maggio-Giugno 2006: mostra Frankfurter Westend Galerie, Francoforte. Maggio-Giugno 2006: mostra Galleria L’Osanna, Nardò (Lecce). Ottobre 2006: mostra “Il pensiero visivo”, Galleria L’Immagine, Cesena. Novembre -Dicembre2006: mostra “Come sarebbe bello il mondo”, Galleria Biasutti & Biasutti, Torino. Novembre -Dicembre2006: mostra Galleria Ferrario, Trento. Ha partecipato alle principali Biennali internazionali di grafica, ricevendo importanti premi. Si autodefinisce "fabbricante di immagini".